I DIRITTI DELLA PERSONA E LA MEDICINA LEGALE
Premessa e delimitazione del campo d’intervento
Per chiarire il senso del mio intervento, è necessaria una premessa sulle caratteristiche della medicina legale attuale. Dal punto di vista della sistematica universitaria, la disciplina si colloca nel settore scientifico-disciplinare della medicina che ha per oggetto l’essere umano, in vita e dopo la morte, ed il materiale biologico di provenienza umana, nei loro rapporti con le norme codificate del diritto e della deontologia professionale nonché con i principi della bioetica. In questa relazione limiterò il campo di riflessione, astenendomi dalle, pur disciplinarmente coerenti, proiezioni nel campo della bioetica – perché oggetto di altro intervento in questo convegno – e soffermandomi solo su alcuni aspetti attinenti alla deontologia professionale e al diritto.
La prima parte dell’intervento sarà dedicata alla valutazione dei disposti deontologici concernenti globalmente il tema “residenzialità e terminalità”; la seconda parte analizzerà il concetto di cura, come incombente al medico in base ad una relativamente nuova norma di legge, il comma 566 dell’articolo unico della legge di stabilità 2015; la terza parte affronterà la questione delle dichiarazioni anticipate di trattamento alla luce dei pertinenti disposti della deontologia codificata e della legge.
Il punto di vista in cui intendo collocarmi è quello della cosiddetta “medicina legale clinica”1, branca della disciplina nata con l’avvio dell’attività medico-legale ospedaliera per opera della riforma nota come Mariotti a partire dalla legge 12 febbraio 1968 n. 132 e poi maturata con l’avvio del servizio sanitario nazionale. La medicina legale clinica non sostituisce la medicina legale, per così dire, classica, nelle sue proiezioni forense e giuridica, ma aggiunge un campo d’interesse. Di conseguenza, oggi, la medicina legale da un lato continua ad identificarsi con la tradizionale attività giudiziaria e di studio e di ricerca e dall’altro si qualifica ulteriormente per un’attività istituzionale nel contesto delle funzioni del servizio sanitario nazionale. L’attività nelle corsie ospedaliere – i cui gli aspetti di dettaglio non è qui possibile descrivere – ha posto il medico-legale a fianco della persona che soffre, consentendogli di avere percezione diretta dei suoi bisogni, da considerare come espressione di diritti ai quali il professionista sanitario è richiesto di dare risposta competente. In quest’ottica, per esempio, la responsabilità del professionista sanitario è intesa non più solo in rapporto alla colpa nell’esercizio professionale, ma anche come impegno del professionista alla tutela dei diritti del paziente, in relazione, per esempio, all’informazione ed all’autodeterminazione, ai bisogni dei soggetti deboli ed incapaci, all’accanimento terapeutico, alla riservatezza.
Diritti della persona e terminalità nei codici di deontologia di alcune professioni sanitarie
Tutte le professioni sanitarie, nel nostro Paese, hanno elaborato un proprio codice di deontologia.2 La struttura formale di questi codici è diversificata. Sono variabili, tra l’altro, il livello di dettaglio e la numerosità degli argomenti specificamente trattati in ogni singolo codice di deontologia. I principi di riferimento ed contenuti essenziali sono comunque analoghi.3 Per quanto riguarda questa relazione, scelgo di soffermarmi sui codici del medico, dell’infermiere e del fisioterapista, che più dettagliatamente rispetto agli altri, affrontano le tematiche dei diritti della persona riguardo a terminalità e residenzialità. Per esigenze di sintesi, prendo in analitica considerazione solo i disposti degli articoli specificamente attinenti, fermi restando i principi generali da cui discendono, a loro volta esposti in appositi articoli, che sarebbe dispersivo trattare in questa sede.
Nel codice deontologico dell’infermiere (2009), gli articoli di peculiare interesse sono quelli che vanno dal 32 al 39.
Articolo 32.
L’infermiere si impegna a promuovere la tutela degli assistiti che si trovano in condizioni che ne limitano lo sviluppo o l’espressione, quando la famiglia e il contesto non siano adeguati ai loro bisogni.
Articolo 33.
L’infermiere che rilevi maltrattamenti o privazioni a carico dell’assistito mette in opera tutti i mezzi per proteggerlo, segnalando le circostanze, ove necessario, all’autorità competente.
Articolo 34.
L’infermiere si attiva per prevenire e contrastare il dolore e alleviare la sofferenza. Si adopera affinché l’assistito riceva tutti i trattamenti necessari.
Articolo 35.
L’infermiere presta assistenza qualunque sia la condizione clinica e fino al termine della vita dell’assistito, riconoscendo l’importanza della palliazione e del conforto ambientale, fisico, psicologico, relazionale, spirituale.
Articolo 36.
L’infermiere tutela la volontà dell’assistito di porre dei limiti agli interventi che non siano proporzionati alla sua condizione clinica e coerenti con la concezione da lui espressa della qualità di vita.
Articolo 37.
L’infermiere, quando l’assistito non è in grado di manifestare la propria volontà, tiene conto di quanto da lui chiaramente espresso in precedenza e documentato.
Articolo 38.
L’infermiere non attua e non partecipa a interventi finalizzati a provocare la morte, anche se la richiesta proviene dall’assistito.
Articolo 39.
L’infermiere sostiene i familiari e le persone di riferimento dell’assistito, in particolare nella evoluzione terminale della malattia e nel momento della perdita e della elaborazione del lutto.
Questi articoli, che sono quelli, come detto, particolarmente attinenti al tema della relazione, contengono svariati aspetti d’interesse, alcuni dei quali sono di seguito elencati:
a) la peculiare attenzione dedicata al contesto, con particolare riferimento alla famiglia ed all’ambiente;
b) l’impegno nei confronti della persona che soffre;
c) la considerazione della volontà della persona;
d) la decisione di non attuare e di non partecipare a interventi finalizzati a provocare la morte;
e) la posizione circa interventi non proporzionati.
Per quanto riguarda a), conviene ricordare preliminarmente il principio generale riportato nell’articolo 2 del codice deontologico dell’infermiere: «L’assistenza infermieristica è servizio alla persona, alla famiglia e alla collettività». Questa indicazione permette di focalizzare sull’impegno verso la famiglia il disposto di alcuni articoli, altrimenti percepibili come generici: il richiamo dell’articolo 32 ad una famiglia non adeguata ai bisogni della persona si traduce in un impegno dell’infermiere a lavorare con questa famiglia perché percepisca i bisogni del congiunto e collabori a dare una risposta adeguata; lo stesso dicasi per i maltrattamenti menzionati nell’articolo 33, talora esercitati non con piena consapevolezza dei familiari, i quali quindi possono essere educati dall’infermiere a migliorare la loro relazione con la persona; parimenti, il conforto relazionale dell’articolo 35 va considerato anche in rapporto all’impegno dei familiari nei confronti del congiunto ed alla loro sensibilizzazione, che può avvenire per opera dell’infermiere; la figura dei familiari è presente pure nell’articolo 37, poiché l’esperienza insegna che sono essi, nella stragrande maggioranza dei casi, ad esprimersi verbalmente e/o a presentare documenti relativamente a precedenti manifestazioni di volontà della persona; il sostegno dell’infermiere nei confronti dei familiari, dichiarato dall’articolo 39, è da intendere non tanto volto al loro conforto, quanto piuttosto caratterizzato da un peculiare impegno educativo finalizzato a far acquisire consapevolezza della loro importanza per il congiunto nell’accompagnarlo nei momenti terminali della vita.
A completamento del punto a), il contesto (in generale) è indicato nell’articolo 32 come condizione in cui l’infermiere si deve impegnare a tutela della persona, è sottinteso (ma evidente) nell’articolo 33 come situazione nella quale si realizzano maltrattamenti che l’infermiere è chiamato a contrastare, assume le connotazioni nell’articolo 35 del conforto ambientale cui l’infermiere deve contribuire.
Quanto a b), gli articoli 34 e 35 sono chiarissimi. Nel primo dei due articoli, la condotta dell’infermiere è descritta tramite due verbi propositivi: attivarsi ed adoperarsi, al fine di prevenire, contrastare il dolore e alleviare la sofferenza e, rispettivamente, di far sì che l’assistito riceva tutti i trattamenti necessari. Nell’articolo 35, è richiamata l’importanza della palliazione, in sintonia con il disposto di carattere generale dell’articolo 6, che dichiara l’impegno dell’infermiere a tutelare la salute con attività di palliazione, oltre che di prevenzione, cura e riabilitazione. Occorre inoltre considerare la peculiare sofferenza (sottintesa) legata all’eventualità dei maltrattamenti e delle privazioni, oggetto d’interesse dell’articolo 33.
In merito a c), il rispetto della volontà della persona discende comunque da alcuni principi di carattere generale enunciati soprattutto negli articoli 3, 20, 21, 24 e 25 del codice deontologico. Quanto agli articoli selezionati nel box 1, la volontà è espressamente menzionata negli articoli 36 e 37 ed assume le caratteristiche della «richiesta» nell’articolo 38. Molto accurato è il disposto dell’articolo 36, quantunque sia stato, da parte di taluni, oggetto di contestazioni, che hanno comunque tratto origine da malintesi grammaticali: come la condizione clinica cui quell’articolo si riferisce è quella, ovviamente, dell’assistito, così il «lui» che identifica il soggetto che esprime la concezione della qualità della vita è sempre il medesimo assistito e non l’infermiere, come è stato provocatoriamente suggerito da chi ha criticato l’articolo. L’articolo 37 è una delle poche fonti normative esistenti nel nostro Paese in punto di dichiarazione anticipata di trattamento. L’articolo 38 enuncia il limite di accettabilità della volontà dell’assistito: la sua richiesta di provocare la morte.
In merito a d), è chiaro il disposto dell’articolo 38.
Meno esplicita è la posizione dell’infermiere in relazione a quanto in e): l’articolo 36 si esprime sulla tutela della volontà dell’assistito di porre limiti agli interventi non proporzionati alla sua condizione clinica, ma non dichiara la posizione dell’infermiere circa la questione, forse perché questa posizione è già contenuta in una norma del codice deontologico di carattere generale, l’articolo 11, per il quale «l’infermiere fonda il proprio operato su conoscenze validate».
I cinque aspetti evidenziati del codice deontologico degli infermieri compaiono anche nel codice di deontologia medica, anche se una di essi – il primo dell’elenco – in quest’ultimo codice è analizzato in termini molto sintetici. Gli articoli di peculiare interesse del codice di deontologia medica in tema di “residenzialità e terminalità” sono:
Articolo 16. Procedure diagnostiche e interventi terapeutici non proporzionati.
Il medico, tenendo conto delle volontà espresse dal paziente o dal suo rappresentante legale e dei principi di efficacia e di appropriatezza delle cure, non intraprende né insiste in procedure diagnostiche e interventi terapeutici clinicamente inappropriati ed eticamente non proporzionati, dai quali non ci si possa fondatamente attendere un effettivo beneficio per la salute e/o un miglioramento della qualità della vita.
Il controllo efficace del dolore si configura, in ogni condizione clinica, come trattamento appropriato e proporzionato.
Il medico che si astiene da trattamenti non proporzionati non pone in essere in alcun caso un comportamento finalizzato a provocare la morte.
Articolo 17. Atti finalizzati a provocare la morte.
Il medico, anche su richiesta del paziente, non deve effettuare né favorire atti finalizzati a provocarne la morte.
Articolo 32. Doveri del medico nei confronti dei soggetti fragili.
Il medico tutela il minore, la vittima di qualsiasi abuso o violenza e la persona in condizioni di vulnerabilità o fragilità psico-fisica, sociale o civile in particolare quando ritiene che l’ambiente in cui vive non sia idoneo a proteggere la sua salute, la dignità e la qualità di vita.
Il medico segnala all’Autorità competente le condizioni di discriminazione, maltrattamento fisico o psichico, violenza o abuso sessuale.
Il medico, in caso di opposizione del rappresentante legale a interventi ritenuti appropriati e proporzionati, ricorre all’Autorità competente.
Il medico prescrive e attua misure e trattamenti coattivi fisici, farmacologici e ambientali nei soli casi e per la durata connessi a documentate necessità cliniche, nel rispetto della dignità e della sicurezza della persona.
Articolo 38. Dichiarazioni anticipate di trattamento.
Il medico tiene conto delle dichiarazioni anticipate di trattamento espresse in forma scritta, sottoscritta e datata da parte di persona capace e successive a un’informazione medica di cui resta traccia documentale.
La dichiarazione anticipata di trattamento comprova la libertà e la consapevolezza della scelta sulle procedure diagnostiche e/o sugli interventi terapeutici che si desidera o non si desidera vengano attuati in condizioni di totale o grave compromissione delle facoltà cognitive o valutative che impediscono l’espressione di volontà attuali.
Il medico, nel tenere conto delle dichiarazioni anticipate di trattamento, verifica la loro congruenza logica e clinica con la condizione in atto e ispira la propria condotta al rispetto della dignità e della qualità di vita del paziente, dandone chiara espressione nella documentazione sanitaria.
Il medico coopera con il rappresentante legale perseguendo il migliore interesse del paziente e in caso di contrasto si avvale del dirimente giudizio previsto dall’ordinamento e, in relazione alle condizioni cliniche, procede comunque tempestivamente alle cure ritenute indispensabili e indifferibili.
Articolo 39. Assistenza al paziente con prognosi infausta o con definitiva compromissione dello stato di coscienza.
Il medico non abbandona il paziente con prognosi infausta o con definitiva compromissione dello stato di coscienza, ma continua ad assisterlo e se in condizioni terminali impronta la propria opera alla sedazione del dolore e al sollievo dalle sofferenze tutelando la volontà, la dignità e la qualità della vita.
Il medico, in caso di definitiva compromissione dello stato di coscienza del paziente, prosegue nella terapia del dolore e nelle cure palliative, attuando trattamenti di sostegno delle funzioni vitali finché ritenuti proporzionati, tenendo conto delle dichiarazioni anticipate di trattamento.
Per quanto concerne a), il codice di deontologia medica non prevede il coinvolgimento dei familiari e si esprime su una questione legata all’ambiente unicamente nell’articolo 32, laddove prevede la circostanza che si realizza quando il medico ritiene che l’ambiente, in cui vive la persona, non sia idoneo a proteggerne la salute, la dignità e la qualità di vita e deve quindi attivarsi per tutelarla.
Con riferimento al punto b), l’articolo 16, secondo comma, del codice di deontologia medica non si sofferma sulla persona che soffre né sulla corretta condotta del medico in questa circostanza, avvalendosi di espressioni sostanzialmente tecniche e astenendosi dal descrivere aspetti relazionali; l’articolo 39 ha un taglio ispirato, anche se non in forma esplicita, all’empatia ed alla solidarietà: in particolare è sancito l’impegno alla sedazione del dolore ed al sollievo dalle sofferenze (sia pur dichiarato limitatamente, ma non era certo questa l’intenzione dell’estensore, al «paziente con prognosi infausta o con definitiva compromissione dello stato di coscienza»), nonché alla prosecuzione nella terapia del dolore e nelle cure palliative, anche «in caso di definitiva compromissione dello stato di coscienza del paziente».
Fuor di dubbio è il punto c), cioè l’attenzione alla volontà della persona; l’articolo 16 menziona detta volontà in relazione a «procedure diagnostiche e interventi terapeutici clinicamente inappropriati ed eticamente non proporzionati»; l’articolo 38, che descrive le procedure relative alle dichiarazioni anticipate di trattamento, è una delle poche norme che in Italia disciplinano la materia; l’articolo 17 pone un limite all’accettazione della volontà della persona, privando di valore la «richiesta del paziente» qualora essa sia volta ad ottenere atti finalizzati a provocarne la morte.
Anche in merito a d), il pertinente disposto non è equivoco: l’articolo 17 respinge l’attuazione e la partecipazione del medico a interventi finalizzati a provocare la morte.
Quanto ad e), la posizione autonoma del medico circa interventi non proporzionati non è dichiarata: il medico si astiene dall’intraprenderli, «tenendo conto» non solo – come dovrebbe essere sufficiente – «dei principi di efficacia e di appropriatezza delle cure» ma anche «delle volontà espresse dal paziente o dal suo rappresentante legale»: ciò significa che se costoro richiedessero «interventi terapeutici clinicamente inappropriati ed eticamente non proporzionati» potrebbero essere esauditi.
Non tutti i cinque elementi, segnalati come caratterizzanti il contenuto degli articoli d’interesse del codice deontologico degli infermieri e ritrovati nel codice di deontologia medica, sono presenti nel codice deontologico del fisioterapista. In particolare, non è considerata la questione riportata in d), vale a dire quella concernente gli interventi finalizzati a provocare la morte. Gli articoli del codice deontologico del fisioterapista (2011) che risultano di peculiare rilievo in tema di “residenzialità e terminalità” sono:
Articolo 5. Tutela della fragilità.
Il Fisioterapista si impegna a promuovere la salute nella sua dimensione bio-psico-sociale, e interagisce con l’ambiente per fare in modo che questo non sia di ostacolo all’ indipendenza delle persone e si adopera per evitare che la disabilità possa essere causa di discriminazione sociale e/o di emarginazione.
Articolo 25. Autonomia decisionale della persona incapace o vulnerabile in situazioni di fragilità.
Nel caso di persone incapaci sottoposte a misure di tutela e/o vulnerabili in situazione di fragilità, il Fisioterapista si impegna a far sì che sia la persona, sia il tutore o rappresentante, ricevano le informazioni che riguardano la loro salute e che la loro volontà sia presa in considerazione.
Il Fisioterapista si impegna e si adopera per garantire lo sviluppo e la capacità di espressione decisionale della persona.
Articolo 34. Problematiche di fine vita.
Il Fisioterapista si adopera per garantire ad ogni persona la tutela e la promozione della qualità della vita in tutte le fasi, fino al suo termine.
Nell’ambito delle cure palliative, anche pediatriche, prende in cura la persona assistita e si impegna ad esercitare la professione con competenza e responsabilità, garantendo gli interventi necessari ad alleviare la sofferenza e a migliorare la qualità della vita.
Il Fisioterapista si impegna a tutelare la dignità e l’autonomia della persona umana, favorendo l’espressione della sua volontà e capacità di scegliere ed evitando trattamenti non proporzionati.
Nell’ambito della terapia del dolore partecipa con le sue competenze professionali, contribuendo altresì a promuovere una cultura di lotta al dolore, nel rispetto della dignità umana e del diritto della buona qualità di vita.
In merito ad a), l’articolo 5, invero di carattere generale, contempla l’interazione del fisioterapista «con l’ambiente per fare in modo che questo non sia di ostacolo all’indipendenza delle persone»; i familiari non sono mai citati in tutto il codice deontologico del fisioterapista.
Quanto a b), l’impegno nei confronti della persona che soffre è contenuto in due passi dell’articolo 34, nel secondo e nell’ultimo comma; prima è affermato il dovere di garantire «gli interventi necessari ad alleviare la sofferenza e a migliorare la qualità della vita» e dopo è precisato che «nell’ambito della terapia del dolore»il fisioterapista «partecipa con le sue competenze professionali», ricorrendo ad una formula vaga, utilizzata forse proprio per sottolineare che il fisioterapista non ha la possibilità d’intervenire nella gestione dei farmaci, e comunque puntualizzando il suo contributo alla promozione di «una cultura di lotta al dolore, nel rispetto della dignità umana e del diritto della buona qualità di vita».
Nel codice deontologico del fisioterapista è richiamato anche il punto c): l’attenzione alla volontà della persona è evidente negli articoli 5 (dove è citata l’indipendenza), 25 (che considera la volontà della persona incapace o vulnerabile in situazioni di fragilità) e 34 (che segnala il rispetto – o, meglio, l’impegno a favorire l’espressione – della volontà nella fase di fine vita).
Quanto ad e), la posizione circa gli interventi non proporzionati, descritta nell’articolo 34, terzo comma, pare meno criptica rispetto ai due codici di deontologia già analizzati; pur d’interpretazione non del tutto limpida, la dichiarazione del fisioterapista di evitare trattamenti non proporzionati non è fatta esclusivamente dipendere dalla – pur indicata immediatamente prima – espressione della volontà e capacità di scegliere della persona.
La cura e il comma 566 della legge di stabilità 2015.
Il comma 566 dell’articolo 1 della legge 23 dicembre 2014, n. 190 «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015)» recita: «Ferme restando le competenze dei laureati in medicina e chirurgia in materia di atti complessi e specialistici di prevenzione, diagnosi, cura e terapia, con accordo tra Governo e regioni, previa concertazione con le rappresentanze scientifiche, professionali e sindacali dei profili sanitari interessati, sono definiti i ruoli, le competenze, le relazioni professionali e le responsabilità individuali e di equipe su compiti, funzioni e obiettivi delle professioni sanitarie infermieristiche, ostetrica, tecniche della riabilitazione e della prevenzione, anche attraverso percorsi formativi complementari».
Il comma 566 riveste specifica rilevanza perché contempla la suddivisione degli atti medici in quattro ambiti: prevenzione, diagnosi, cura e terapia. Si tratta della prima norma di legge che descrive l’esercizio della professione di medico-chirurgo,4 stabilendone esplicitamente le quattro attività costitutive. Valutando unitariamente il comma, discende il seguente concetto: formano oggetto della professione di medico-chirurgo gli atti inerenti alla prevenzione, alla diagnosi, alla cura e alla terapia.
Il peculiare interesse del contenuto di questa norma è rappresentato da uno dei quattro elementi menzionati come costitutivi dell’attività medica: la cura. Sul concetto di cura è possibile soffermarsi a lungo, ma in questa sede, per semplicità, conviene ridurre la questione all’essenziale, senza tuttavia banalizzarla. La fondamentale domanda cui occorre dar risposta è la seguente: nel comma 566, il legislatore, quando cita la “cura”, attribuisce al sostantivo il significato, anche etimologico, della presa in carico della persona e dell’impegno attivo nei suoi confronti da parte del medico, oppure a quello, secondo i casi, della somministrazione, dell’attuazione o della prescrizione di trattamenti, per esempio, chirurgici o farmacologici? Per esprimersi con un lessico anglosassone abbastanza diffuso, che sfrutta un gioco di parole intraducibile in italiano, questa “cura” del comma 566 corrisponde ad attività assimilabili al to care o, rispettivamente, al to cure ?
La risposta è facile, perché la lettura del comma 566 è semplice. Cura è qui testualmente distinta da terapia: entrambe le attività caratterizzano la professione medico-chirurgica, talché a ciascuna attività va attribuito un significato peculiare e proprio. È indubbio che la terapia sia da intendere come trattamento, medico o chirurgico, da applicare in caso di malattia. Perciò alla cura deve essere attribuito il significato di presa in carico.
Anche il disegno di legge «Disposizioni in materia di responsabilità professionale del personale sanitario», noto con il cognome del suo Relatore alla Camera dei Deputati, On. Federico Gelli, attualmente (marzo 2016) in fase di discussione in Senato, riprende il tema della “cura” valorizzandola nell’articolo 1.
Incidentalmente, segnalo che nell’ordinamento didattico universitario, classe delle lauree specialistiche in medicina e chirurgia – 46 S, fra gli obiettivi formativi qualificanti del medico-chirurgo non compare mai il sostantivo “cura” o il verbo “curare”.
In base al comma 566, al medico competono dunque la terapia e la cura. La cura non si identifica con la terapia e non ne è sinonimo.
Si tratta di un concetto fondamentale, che acquista maggior valore, giacché esso è coerente con un’indicazione, anch’essa nuova (2014) nella formulazione testuale, del codice di deontologia medica. L’articolo 20 di questo codice è innovativamente rubricato «Relazione di cura» e reca un testo, ben diverso rispetto alla precedente versione, che afferma, tra l’altro, «l’alleanza di cura fondata sulla reciproca fiducia e sul mutuo rispetto dei valori e dei diritti» e richiama «autonomie e responsabilità», rispettive, del medico e del paziente.
In estrema sintesi, è chiaramente esplicitato che al medico compete la cura del paziente (secondo la previsione testuale dell’art, 20 del codice di deontologia) o, più estensivamente, della persona (stante l’indeterminatezza, circa questo aspetto, del comma 566). Questa cura, per quanto recita l’articolo 20 del codice di deontologia, è un aspetto della responsabilità del medico. Ad analoga conclusione porta l’analisi del comma 566, che non adotta la parola responsabilità, ma riporta le attività costitutive delle competenze, che stanno ovviamente alla base della responsabilità del medico.
Che la cura rientri fra le competenze del medico non è un concetto nuovo, postulato dal comma 566. Si tratta, infatti, di una competenza intrinsecamente connaturata alla professione medica, nonché a qualunque professione sanitaria. Ora, nel comma 566, la cura assume enfasi per la forma e la forza che il disposto di legge conferisce ad essa, come competenza del medico-chirurgo espressamente dichiarata.
Ma quale è la cura esigibile dal medico-chirurgo? Le questioni specifiche, che discendono dalla casistica di realtà, sono diverse e di complessa soluzione. Propongo di seguito alcuni esempi, in forma interrogativa. La cura va garantita dal medico al paziente in quanto malato (cioè in quanto, propriamente, paziente) o alla persona in genere? Fino a che punto il medico si deve attivare per farsi autenticamente carico del paziente o della persona? Rendere il paziente consapevole della propria malattia rientra nella cura? Quale cura per chi rifiuta la terapia (anche in considerazione dei diversi obiettivi, di volta in volta, della terapia rifiutata)? O per chi non dichiara i propri sintomi, o per chi si esprime con comunicazione non verbale, o per lo straniero che non conosce la lingua italiana in assenza di mediatore culturale? In questi casi, fino a che punto e in che modi occorre attivarsi? E ancora, quale cura nei casi nei quali il medico è stato interpellato dalla persona occasionalmente, al di fuori della attività istituzionale?
A questi interrogativi occorre fornire risposta tenendo conto della indeterminatezza del sostantivo cura e quindi della sua potenziale vasta estensione applicativa, nonché del fatto che si tratta d’indicazione ribadita in due diverse fonti, nel comma 566 e dell’articolo 20 citati, il primo di carattere prescrittivo e il secondo espressione di una scelta d’impegno da parte del professionista che si identifica nel codice di deontologia. Di conseguenza, dette norme vanno nel senso di un concetto di solidarietà molto dilatato, potenzialmente illimitato (compatibilmente comunque con le concrete possibilità di porre in essere la solidarietà), e della esigibilità di un comportamento da parte del medico ispirato ad un’ampia presa in carico del paziente e/o della persona che esprime il proprio bisogno al professionista.
Le dichiarazioni anticipate di trattamento e l’amministrazione di sostegno
L’istituto delle dichiarazioni o direttive anticipate di trattamento (noto con varie altre denominazioni), di matrice nordamericana, è disciplinato con legge anche in alcuni Stati europei;5 in queste dichiarazioni/direttive, la persona capace esprime, appunto in anticipo, la propria volontà riguardo ai trattamenti sanitari, ai quali consente o rifiuta di essere sottoposta quando in futuro si troverà in una situazione d’incapacità, in genere incaricando un fiduciario di decidere in sua vece. Nell’ordinamento italiano, non vi è una disciplina organica di queste direttive/dichiarazioni anticipate, pur esistendo un preciso, invero scarno, riferimento nella cosiddetta convenzione di Oviedo, recepita nel nostro Paese con legge 28 marzo 2001, n. 145 «Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano riguardo all’applicazione della biologia e della medicina: Convenzione sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina, fatta a Oviedo il 4 aprile 1997, nonché del Protocollo addizionale del 12 gennaio 1998, n. 168, sul divieto di clonazione di esseri umani». L’articolo 9 della convenzione di Oviedo, stabilisce che «dovrà tenersi conto», vale a dire prendere in considerazione e valutare – e non accogliere incondizionatamente – le volontà precedentemente manifestate dalla persona non in grado di esprimere la sua volontà nel momento del trattamento sanitario. Ecco il testo completo dell’articolo: «Articolo 9. Volontà espresse precedentemente. Saranno prese in considerazione le volontà precedentemente espresse nei confronti dell’intervento medico da parte del paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la propria volontà».
Ho già ricordato gli articoli che, nei codici di deontologia del medico (articolo 38) e dell’infermiere (articolo 37), trattano il tema delle dichiarazioni anticipate. Il comportamento del medico di fronte alla persona non più capace di manifestare le sue preferenze era già disciplinato nelle edizioni del 1998 e del 2006 del codice di deontologia: era contemplato, con formulazioni leggermente diverse, il dovere del medico di tenere conto delle volontà precedentemente manifestate dal paziente. Il vigente codice di deontologia medica, del 2014, si esprime con maggior dettaglio: l’articolo 36 ribadisce il dovere di tener conto delle dichiarazioni anticipate di trattamento nell’assistenza in urgenza ed emergenza; l’articolo 38, la cui rubrica riporta ora le «dichiarazioni» e non più le «direttive» anticipate, 6 riprende l’affermazione di principio – sopra citata – dei due codici previgenti ed aggiunge la descrizione di una procedura particolarmente analitica, attribuendo fra l’altro al medico l’incombente di verificare la congruenza logica e clinica delle dichiarazioni anticipate con la condizione in atto.
La pur dettagliata regolamentazione, invero non condivisa da tutti gli Studiosi, 7 introdotta con l’ultima versione del codice di deontologia medica, non può ovviare al fatto che in Italia non esista una legge che disciplini organicamente la materia delle dichiarazioni/direttive anticipate.
Assume quindi importanza una prassi che si va progressivamente diffondendo, in applicazione dei disposti della legge 9 gennaio 2004, n. 6. Questa legge ha modificato il codice civile ed ha introdotto, accanto ai tradizionali istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione, un nuovo istituto di protezione delle persone fragili: l’amministrazione di sostegno. Si tratta di un istituto che, come enunciato nell’articolo 1, ha l’obiettivo di «tutelare con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte dell’autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente». I presupposti applicativi dell’amministrazione di sostegno sono individuati, nell’articolo 404 del codice civile, in un’infermità ovvero in una menomazione fisica o psichica e nell’impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi.
Sin dall’entrata in vigore della legge 6 del 2004, la letteratura giuridica e medico-legale 8 ha evidenziato che l’amministratore di sostegno è investito della gestione non solo degli interessi riconducibili alla sfera patrimoniale, ma anche della cura della persona globalmente considerata. L’amministrazione di sostegno si è così affermata in giurisprudenza come l’istituto applicabile per promuovere la salute del beneficiario. Nei primi decreti, i giudici tutelari incaricano l’amministratore di sostegno di sostenere la persona in condizione attuale o prossima di fragilità nella scelta del trattamento medico più appropriato.
In seguito (a cominciare, per quanto pubblicato in letteratura, da alcuni decreti del Tribunale di Modena: 13 maggio 2008 e 5 novembre 2008), l’amministrazione di sostegno è stata progressivamente valorizzata come strumento processuale adeguato per veicolare e rendere effettive le direttive/dichiarazioni anticipate di trattamento 9; i giudici tutelari giungono a pronunciarsi anche su ricorsi presentati da persone senza attuali o imminenti problemi di salute, finalizzati alla nomina di un amministratore di sostegno che garantisca il rispetto delle loro scelte di salute, nell’eventualità di una futura incapacità di provvedervi personalmente.
Da un’analisi10 dei decreti pubblicati in riviste o comunque disponibili, emergono le seguenti situazioni schematiche che hanno determinato e determinano il ricorso al giudice tutelare in materia di manifestazioni anticipate di volontà:
I) nomina dell’amministratore di sostegno per manifestare ai curanti la volontà, espressa precedentemente o ricostruibile, del beneficiario incosciente;
II) nomina anticipata dell’amministratore di sostegno, giustificata dalla probabile e imminente perdita di capacità del beneficiario;
III) nomina anticipata dell’amministratore di sostegno su ricorso del beneficiario competent e in salute per l’eventualità di una futura impossibilità di provvedere ai propri interessi.
Lungo sarebbe qui soffermarsi su alcuni contrasti nella giurisprudenza di merito riguardo alle tre tipologie poco sopra elencate. Basti segnalare che,a risolvere la disomogeneità applicativa conseguente alle difformità interpretative, è intervenuta la sentenza 20 dicembre 2012, n. 23707 della Corte di Cassazione. La Suprema Corte prende posizione a favore dell’orientamento per cui la procedura giudiziale di nomina dell’amministratore di sostegno «implica il manifestarsi della condizione di infermità o incapacità della persona», quindi deve essere attivata solo nell’attualità della situazione d’impossibilità di provvedere ai propri interessi. La designazione di un amministratore di sostegno per l’ipotesi, meramente ipotetica all’atto della designazione, di una futura incapacità non produce effetti se non sul piano privatistico; per convertire la designazione in nomina si renderà indispensabile un intervento del giudice tutelare, ma solo nel momento in cui insorga l’esigenza di protezione.
Una proposta conclusiva: la direttiva di cura e la sua persistenza
Alcuni decreti dei giudici tutelari, relativi al tema dell’amministratore di sostegno quale veicolo delle direttive/dichiarazioni anticipate, offrono lo spunto per prendere in considerazione anche in questo ambito la “cura” come valore preminente e punto di riferimento nelle scelte della persona.
In questi decreti, i giudici tutelari concludono nel senso che il caso di volta in volta esaminato non può definirsi di direttive/dichiarazioni anticipate e che di conseguenza non c’è necessità di nominare un amministratore di sostegno.
Mi riferisco in particolare a due decreti, che contengono, tra l’altro, i seguenti passi:
«… carente sotto il profilo dell’interesse ad ottenere il provvedimento richiesto, avendo il beneficiario già espressamente dichiarato di rifiutare le trasfusioni di sangue … sicché l’eventuale dissenso in tal senso espresso dall’amministratore di sostegno nominato a tal fine risulterebbe meramente confermativo della volontà già espressa dal beneficiario» (Tribunale di Mantova, decreto 24 luglio 2008);
«di fatto la misura di protezione non apporterebbe alcun valore aggiunto rispetto alla ferma volontà sino a quel momento espressa direttamente dall’inferma, adeguatamente documentata e giornalmente verificata dai medici, e che dovrà, comunque, essere tenuta in doverosa considerazione dai sanitari» (Tribunale di Genova, decreto 6 marzo 2009).
Da questi decreti discende che – secondo l’opinione dei giudici tutelari estensori – esiste un equivoco nell’impostazione del tema delle dichiarazioni/direttive anticipate. L’equivoco concerne l’oggetto delle dichiarazioni/direttive stesse, oggetto che in genere è identificato semplicisticamente nel singolo atto terapeutico o intervento chirurgico di imminente esecuzione.
In realtà, l’obiettivo dell’intervento sanitario riguarda un progetto di cura, di medio o lungo termine, comunque difficilmente legato ad un’attività singola che si esaurisce in sé stessa, e di conseguenza l’oggetto delle manifestazioni di volontà della persona assistita non può che identificarsi in questo progetto. Qualificando in tal senso l’oggetto della volontà della persona, cade anche l’equivoco relativo al momento di manifestazione della volontà e segnatamente del rifiuto di cure. L’attualità del rifiuto deve essere concepita, infatti, in senso logico e non meramente cronologico, come sottolineato da tempo dalla più attenta dottrina;11 altrimenti ragionando, ogni volontà non strettamente contestuale al singolo atto medico dovrebbe considerarsi invalida per il fatto stesso della sua inattualità, con la conseguenza che le decisioni per la salute del paziente finirebbero, in molte situazioni, per «ispirarsi esclusivamente ad un best interest eterodeterminato». La sopravvenuta incoscienza non fa perdere validità al rifiuto manifestato al professionista sanitario dalla persona globalmente informata e consapevole della prevedibile evoluzione della patologia, nonché del significato e delle conseguenze delle sue decisioni. Il rifiuto così espresso, riferendosi al progetto di cura, continua a essere attuale e valido oltre il momento della sua espressione; perciò è improprio interpretarlo come una direttiva/dichiarazione anticipata di trattamento, allorquando insorga – come previsto nel progetto di cura, notificato dai curanti e inteso dalla persona – lo stato d’incoscienza.
A questa estensione dell’oggetto (dall’atto al progetto) e della validità temporale della volontà corrisponde una restrizione del concetto di dichiarazione/direttiva anticipata di trattamento.
Nelle situazioni in cui la volontà è stata espressa dalla persona, già ricoverata o malata, informata e consapevole, con riferimento a un progetto di cura definito con i professionisti sanitari, non è coerente ritenere di trovarsi di fronte a direttive/dichiarazioni anticipate ed in pericolare non è necessario chiedere la nomina di un amministratore di sostegno o mobilitare quello eventualmente già nominato.
L’amministratore di sostegno non è necessario neppure per supportare le decisioni del professionista sanitario, che non ha bisogno delle rassicurazioni di un terzo nominato dal giudice tutelare per rispettare il rifiuto espresso dalla persona assistita, nei termini appena descritti, cioè con riferimento al progetto di cura, in quanto intrinsecamente persistente, perché manifestato in relazione alla prevista proiezione futura di una realtà attuale.
Se l’interesse è la cura, la manifestazione di volontà espressa in un dato momento attiene al suo sviluppo nel tempo, salvo diversa esplicita ulteriore diversa volontà, ed è quindi da intendere come direttiva di cura persistente.