ESPERIENZA DI UN CENTRO SERVIZI

a cura del dott. Roberto Ramon, Medico AltaVita - I.R.A. Atti del convegno 6 maggio 2016 "Terminalità e Residenzialità"

Oggi è il mio turno di guardia; avrò aperto e ripiegato il foglio delle consegne almeno una ventina di volte e la lista delle annotazioni si è fatta via via più lunga. Il sole è quasi totalmente nascosto ora che le ombre hanno invaso i cortili e le strade di questa parte di città. Quel foglio è ripiegato nel mio taschino, ma il pomeriggio, il mio pomeriggio, non è tutto lì. Il piatto con la cena mi aspetta da circa un’oretta sopra il tavolo, fortunatamente non prendo mai alla sera alimenti che si possono raffreddare. Se il telefono non suonerà per un quarto d’ora, forse potrò consumare senza interruzioni il mio fiero pasto. Il pomeriggio è sicuramente stato impegnativo, ma chi può prevedere come sarà la notte? Meglio fare scorta di energie e possibilmente sollevare un po’ le gambe.

Sono state molte le visite dei familiari; quando il mio telefono è squillato, mi è capitato più volte oggi di passare tra loro, osservare il volto degli ospiti accendersi per quei sorrisi e quegli sguardi ritrovati; frammenti di dialogo si sono rincorsi ed intrecciati per tutto il pomeriggio rendendo vibrante l’aria del piano terra. Le luci artificiali iniziano ad accendersi e cala lentamente il silenzio finché s’odono distinti i passi di chi, da ultimo, fa ritorno alla propria casa.

Ho terminato da poco la mia cena ed approfitto di questo momento di tranquillità per dare una veloce lettura anche ai fogli delle consegne che da più giorni sono fissati al raccoglitore vicino al computer. Sono tantissimi, hanno superato il migliaio; non sono argomenti sviluppati con i relativi riferimenti bibliografici, né, tanto meno, sono studi sperimentali con materiali e metodi, risultati e discussione. Sono fatti, sono fatti trasformati in parole. Annotazioni scritte giorno dopo giorno: data, nome dell’ospite, problema clinico, tipo di intervento; nome dell’ospite, tipo d’intervento. L’elenco dei nomi è lungo, ma alcuni si ripetono con maggior frequenza rispetto ad altri. Quegli ospiti hanno visto più volte il medico quel giorno, forse, quel giorno, hanno sofferto più di altri. Le calligrafie si alternano pagina dopo pagina; lo ammetto, la mia è la peggiore.

Dalla finestra entra isolato il rumore di un’automobile che percorre la strada adiacente; di tanto in tanto una figura di luce scivola sulle pareti di quella che per stanotte sarà la mia stanza. Ora il silenzio si fa dominante; ora è veramente tutto pronto e lo sono anch’io. Lasciata la stanza, chiusa dietro di me la porta con un giro di chiave che a quest’ora riecheggia fin all’uscita principale, m’incammino; voglio passare attraverso i vari corridoi, voglio pensare, voglio essere certo di non aver dimenticato nulla.

Davanti a me, in lontananza, la porta del bar è chiusa a quest’ora. Domattina, probabilmente, oltre agli operatori sanitari di turno, la signora del bar sarà la prima persona che incontrerò. Alla mia destra vedo il professore, seduto sulla sua sedia abituale e chino sul libro che tiene aperto con una mano. E’ un’immagine ormai nota a noi che usciamo la notte; è un’immagine che ogni volta suscita in me una profonda ammirazione. Il professore è un ospite che non seguo direttamente, conosco poco del suo passato, ma ciò che vedo mi basta e mi piace. Una piccola figura nella penombra, silenziosa, vicino a scafali pieni di libri. Chissà da quanto tempo è ospite nella Struttura e se ha già letto tutti i libri che sono alle sue spalle. Non so quale sia con precisione la sua età, ma sono certo che di storie da raccontare ne abbia parecchie; storie non lette, ma vissute direttamente, storie che aspettano solo di essere ascoltate.

Non molto lontano dal professore vi sono numerosi fogli ed ognuno presenta un disegno diverso. Paesaggi di campagna, piccoli animali del bosco, corsi d’acqua tranquilli, qualche borgo, un vaso di fiori. Gli stili sono molteplici, vi sono dolci sfumature e contrasti decisi, profili luminosi ed ombre oscure; serenità, ansia, gioia, paura, questo trasmettono quando li osservo, ed io li osservo sempre a quest’ora della sera quando qui tutt’intorno cala il silenzio. Non posso fare a meno di pensare ad uno dei maggiori pittori impressionisti. Gli impressionisti accostavano vicinissimi punti di colore puro, praticamente inesistente in natura. Ma nell’occhio dell’osservatore questi colori si fondevano dando vita a sfumature bellissime. Monet in particolare dipingeva in modo ossessivo il suo giardino. Sempre diversi erano tuttavia i colori riflessi dal suo giardino nelle varie ore del giorno; «otterrò la varietà dalla stagione, dalla temperatura, dal vento, dalla pioggia, dal caldo, dal freddo, dal mattino, dal pomeriggio» diceva. E’ l’inarrestabile trascorrere del tempo che cambia le cose, ciò che è più fragile cambia più in fretta e ciò che ci sembra fisso ed immutabile, domani, con nuova luce, avrà nuovi colori.

La situazione effettivamente, a quest’ora della notte, sembra sotto controllo; l’infermiera del reparto che seguo direttamente mi informa che Maria riposa tranquilla, respira silenziosamente. Maria non viene alzata ormai da giorni; dopo una lunga terapia antibiotica i suoi polmoni suonano un murmure aspro, la signora è stanca, allettata, a fatica controlla il busto quando seduta in carrozzina. L’ho imboccata lentamente e pazientemente in almeno tre occasioni e sempre, dopo un paio d’ore, quel famigerato broncospasmo; il giorno dopo, puntuale, la febbricola, l’accesso venoso e la terapia antibiotica. Maria è affetta da demenza tipo Alzheimer di grado avanzato; fino a qualche mese fa deambulava con ausilio. Un giorno, a seguito di una improvvisa caduta con frattura di femore, si è dovuta fermare per un po’. Ha iniziato il suo ciclo di riabilitazione e si è rimessa in piedi. E’ una donna forte Maria con un cuore debole ed una fibrillazione atriale che l’accompagna ormai da anni. Questa volta temo non abbia più voglia di rimettersi in piedi; la sua fragilità la rende instabile e mutevole; la settimana scorsa ancora mi parlava, dopo l’ennesima bronco-aspirazione aveva ancora la forza di ringraziarmi. Ora mi guarda soltanto e di lontano quando le sue palpebre si sollevano a fatica per scorgere chi a tratti la chiama. E’ passato qualche anno da quando Maria è stata accolta presso il nostro Centro Servizi, abbiamo iniziato e proseguito un cammino assieme. Una persona che prima era parzialmente autonoma ed ora non lo è più, una persona che prima comunicava e che ora vorrebbe comunicare, ma non ci riesce; è rimasto tuttavia un contatto, un rapporto emotivo. Nella sua debolezza, nella sua cronicità, Maria ha fatto sì che ogni giorno fosse diverso, rinviandoci, nella quotidianità, sfumature di colore di volta in volta diverse nel trascorrere ineluttabile del tempo. Ha sicuramente patito la progressione dei suoi malanni, ma non ha mai perso il desiderio di continuare a vivere, almeno fino a questi ultimi giorni. I miei colloqui con i familiari di Maria sono quotidiani. Le sue condizioni oggi si sono ulteriormente aggravate.

Noi medici parliamo spesso con gli ospiti ed i loro familiari; desideriamo costruire una relazione, capire da quale terreno si son sollevate le radici di chi viene a vivere con noi. Ci piace decifrare le speranze, cogliere le aspettative; cerchiamo di capire se vi sono delle convinzioni errate che devono essere discusse. E’ un momento fondamentale. Qualcuno probabilmente in questa occasione per la prima volta impara a conoscere la reale gravità della malattia del proprio caro. Qualche altro regge già da molto tempo le difficoltà di un’assistenza nella cronicità. Queste famiglie cercano supporto, cercano una spiegazione, un perché. La persona che è sempre stata loro accanto e che era autonoma, ora non lo è più, non ragiona più come prima, ma a suo modo ragiona e comunica. Quando poteva ancora camminare, l’hanno vista comparire in pigiama, spettinata nei posti più disparati della casa, ma ora è in carrozzina, ora si fa spingere. Se non autonoma, non sembra più vita, ma quella è vita, vita che continua in un’altra dimensione. Parliamo, cerchiamo termini semplici, vogliamo comunicare e non solamente trasmettere; certo, non è facile far accettare la demenza come una malattia per la quale non esiste alcuna cura, una malattia che costringe il paziente ad un percorso difficile, fatto di dolore, ansia, paure, sensazione di smarrimento, ma cerchiamo di farlo con parole semplici, dirette, mai tuttavia spegnendo la scintilla della speranza. Sappiamo tuttavia anche tacere, creare il silenzio, perché è all’interno di questi spazi di silenzio che ci mettiamo in ascolto.

Continuo lentamente la mia camminata lungo i corridoi del reparto. Passo vicino ad alcune stanze del piano terra. Qualcuno russa, qualcun altro pronuncia nomi di persona. Dietro di me sento rumori di giornale; il professore ha deciso di coricarsi e lentamente sta raggiungendo la sua stanza accompagnando il suo deambulatore. Odo uno strano fruscio in sottofondo come se la scena della mia guardia non fosse ben sintonizzata. Strano le previsioni non parlavano di pioggia per stanotte. I vetri delle verande sono già punteggiati di goccioline; va bene, sono ancora ben sveglio.

E’ da quando ho iniziato la scuola che mi insegnano ad usare le orecchie. L’ascolto di uno strumento musicale, l’ascolto di un soffio aortico, l’ascolto di un murmure aspro, l’ascolto di un paziente e l’ascolto di chiunque abbia qualcosa da dire. Ascoltare è importante, ma è altrettanto importante far capire a chi parla che lo stiamo ascoltando veramente. Incontriamo persone ogni giorno ed oltre ad incontrarle con gli occhi e la mente, le incontriamo con il cuore. Ecco, solo allora la costruzione della relazione è perfetta. Solo allora costruiamo quell’alleanza terapeutica che sarà poi fondamentale nei processi decisionali anche del fine vita. In queste fasi dimostriamo la nostra abilità e diamo veramente un senso alla nostra professione.

Suona il telefono, al secondo piano un paziente è scosso da brivido e la temperatura inizia la sua salita. L’infermiera mi comunica i parametri e mi trasmette il contesto; quando arrivo al letto dell’ospite ho già in mente un ipotetico scenario clinico e quando lo visito, il quadro è praticamente completo, in tutti i suoi meravigliosi colori. All’ospite è stato cambiato il catetere vescicale ieri; mi limiterò ad iniziare una terapia antibiotica ad ampio spettro. Prescrivo, annoto e mi incammino. Uscendo dal reparto uno spiffero d’aria fresco mi accarezza il collo.

Qualche anno fa, mi sarei allontanato da quel letto preoccupato solo di centrare la diagnosi esatta; probabilmente avrei preso un modulo di richiesta e l’avrei disseminato di crocette, per non tralasciare nulla, nemmeno la diagnosi più improbabile; un rumore di zoccoli mi avrebbe sicuramente evocato una zebra. Oggi, in verità, dopo più di venti anni, mi accontento, perché voglio di più.

L’anziano fragile, in tutto ciò che fa esprime dolcezza; no, questo non è certo un campo di battaglia, non è certo questo il terreno della dissertazione, della sperimentazione scientifica; l’anziano chiede innanzitutto di superare con l’aiuto del medico e di chi gli sta accanto i timori generati dalla malattia; chiede di incontrare non solo la mente e la tecnica del medico, ma soprattutto il suo cuore. Quando il medico incontra un anziano con il cuore sa dare un senso ad ogni suo piccolo gesto, ad ogni minima espressione del viso che voglia trasmettere un’emozione, una sofferenza fisica o psicologica, che voglia trasmettere il desiderio di disporre ancora del suo tempo rimasto. I nostri “nonni” ci insegnano a pensare innanzitutto ai cavalli, quando udiamo un rumore di zoccoli; è un risultato formulare una diagnosi anche solo “probabile”.

Sto per tornare nella mia stanza ma prima voglio passare a trovare Carlo. Carlo mi è stato consegnato come terminale critico. Negli anni la demenza ha catturato la sua mente ed il suo corpo con morse via via sempre più strette. Me lo ricordo Carlo; qualche mese fa girava ancora spingendo con agili braccia la sua carrozzina. Il tempo si è poi preso un po’ del colore dei suoi occhi e gran parte delle sue parole. E’ diventato disfagico, un boccone ed un colpo di tosse, un boccone ed un colpo di tosse. La sua carrozzina si è mossa sempre più lentamente, fino a rimanere ferma anche per ore. Le braccia, le braccia si sono fatte sempre più rigide. Le gambe lo erano già da un pezzo, bloccate ed indurite dall’ipertono. Carlo ha perso l’appetito, è diventato triste, ormai da giorni non si alza dal letto tale è la sua debolezza. Carlo da tempo è entrato nella sua dimensione, nel suo mondo. Chissà, forse fino a ieri ha osservato attraverso il vetro il grande mondo di fuori pensando a quanta fatica ha fatto per contribuire a mandarlo avanti. Entro nella sua stanza, a fianco del letto è seduto un uomo, uno dei suoi figli. La luce soffusa esalta il profilo di Carlo. Il suo respiro è profondo, non ritmico, ma comunque silenzioso. Non vi è rantolo agonico. Le sue braccia sono sottili, la testa rialzata da due cuscini, pochi capelli ed un volto rilassato, il resto del corpo si perde sotto le coperte. Arriva l’infermiera per la terza fiala di morfina. Vicino alla mia testa c’è il flacone della fisiologica in corso. Mentre incrocio lo sguardo del figlio penso: questa è una buona morte.

Carlo è arrivato al termine del suo percorso; la speranza è di morire senza dolore, circondato dai propri cari, sentendosi di essere amato. Non sempre è possibile morire nella propria casa, ma certamente al suo fianco ora non ha solo il figlio, ma molte persone per lui importanti che lo hanno accompagnato lungo il suo percorso fin quasi al traguardo.

Carlo sta ricevendo morfina. Sono stati adottati tutti gli accorgimenti che gli consentono di evitare il dolore. Con il dolore la morte non può mai essere di qualità.

Carlo è giunto molti anni fa presso la nostra Struttura, è vissuto tra queste mura anche quando le sue condizioni di salute erano certamente migliori. Certo, fosse stato un anziano cosiddetto “robusto” sarebbe rimasto tra le mura domestiche, ma sia lui che la sua famiglia hanno avuto bisogno di aiuto, per questo ha incontrato il personale sanitario e gli altri ospiti di questo luogo; per questo è vissuto con loro per tutto il tempo; ha condiviso momenti di gioia e momenti di sofferenza. Sì, sono convinto che Carlo sia ora a casa propria e non desideri che la sua morte sia resa anonima da un invio in ospedale; morire nel luogo dove si è vissuti per tanto tempo consente di creare un’atmosfera di intimità e di rispetto.

Carlo è sereno in questo momento? Una pace interiore con sé e con gli altri gli consentirebbe una morte serena. Forse nella sua esistenza Carlo ha avuto modo di risolvere tutti i suoi conflitti o forse sta superando l’ultimo proprio ora, con quel figlio che gli sta accanto. Carlo ha sicuramente incontrato in questi anni persone che gli sono state a fianco e l’hanno aiutato anche nella riconciliazione. Ne sono quasi certo, egli sta ottenendo ciò che ha chiesto: una morte dignitosa.

Carlo ha potuto parlare della morte durante il suo cammino nella nostra comunità. Il suo medico ha saputo costruire con lui negli anni una relazione personale per poter affrontare questo argomento in assoluta tranquillità, probabilmente anche davanti ad un piatto di pasta in refettorio. Nessuno del team multidisciplinare ha evitato questo argomento perché ognuno è convinto che della morte si debba parlare sin dal primo giorno in cui si accoglie l’ospite. Troppo spesso infatti le decisioni del fine vita sono condizionate dalle angosce, dalle paure del paziente e dei suoi familiari in vicinanza dell’evento ultimo. Parliamo del morire bene, parliamo con i nostri ospiti ogni volta se ne presenti la possibilità per non dover poi, noi medici per primi, rimpiangere le occasioni perdute.

Esco dalla stanza, saluto gli operatori di turno e mi avvio per le scale. Le gambe cominciano ad essere un po’ stanche; non ho più la prestanza dei vent’anni mi ripeto più volte mentre giungo al piano terra. Oltre il vetro le luci del parcheggio interno mi consentono di vedere le poche macchine rimaste. Qualche ramo d’albero sembra muoversi vivacemente rispecchiandosi in pozzanghere piatte come l’olio; non piove più. Forse domani il sole farà brillare gli amati colli e stringendo il manubrio della mia bicicletta potrò spingere sui pedali; non troppo però, le salite non sono il mio forte. Le strade piane che tagliano i campi, mi consentono invece di osservare il paesaggio, sentire la brezza sul viso mentre pedalo, mi consentono di pensare appoggiato su due centimetri di suolo. I copertoncini sono sottili ed estremamente delicati. La strada corre sotto il filo delle ruote, mi godo il panorama mentre il percorso da compiere progressivamente si accorcia. Non sempre tuttavia va tutto liscio, ogni strada che si rispetti ha le sue buche, i suoi frammenti di vetro, le sue spine solitarie. Quando sei giovane ed allenato vai veloce e riesci ad evitare in tempo gli ostacoli; un colpo di reni e via, prosegui la tua corsa. Se hai qualche anno in più sulle spalle e molte ore di allenamento in meno sul tuo cronometro, le cose però si complicano; inizi ad andare piano, qualche buca riesci ancora a schivarla, ma non tutte e se poi hai anche la vista un po’corta non vedi nemmeno il frammento di vetro. Ti accorgi di esserci passato sopra solo dal sibilo che produce la tua ruota quando si sgonfia. Ebbene sì, quando hai qualche anno in più sulle spalle, il tuo giro in bici si complica; è più alta la probabilità che tu cada, ma soprattutto speri che almeno il tuo ultimo traguardo non sia in salita.

Rientro nella mia stanza, lo schermo del computer tinge di una luce fioca azzurrina le pareti. Mi siedo alla scrivania; la navigazione del vascello con il suo prezioso carico procede tranquilla e silenziosa; siamo in mare aperto, siamo nel mare della vita a volte calmo e a volte burrascoso; apro la finestra per respirare la fresca brezza della notte, un piccolo brivido mi assale.

La sofferenza nell’età avanzata è sempre diversa, cambia ogni giorno e per mille motivi. Lo scompenso cardiaco, il diabete, le fratture, la demenza sono le tormente che agitano le acque di questo mare. L’anziano ha lasciato la sua casa ed ha iniziato questo viaggio. Inizialmente non concepiva nulla come proprio; al momento di partire ha portato qualcosa con sé, ma ha comunque dovuto scegliere cosa abbandonare, quali vissuti concedere all’oblio. Quanti nostri ospiti avranno temuto di perdersi nel vuoto nel giorno seguente al loro “imbarco”? Quanti avranno pensato di essere nell’anticamera della morte nei primi giorni di viaggio? Chiunque di noi si occupi di anziani sa quanto siano difficili questi momenti, quanto forte sia la richiesta di aiuto e come sia fondamentale offrire un equipaggio tecnicamente preparato, ma soprattutto umano che si prenda cura dell’anziano, che dia una risposta lenitrice alle paure ed alla solitudine che, nella malattia, attaccano la sua persona. Mi tornano nella mente i disegni che ho visto vicino al bar e molti altri appesi alle pareti dei reparti della Struttura; qualcuno domani vi passerà vicino e dovrà essere aiutato a ricordare di averli creati, qualcun altro invece li riconoscerà ricordando di averli fatti in tempi in cui ancora le mani sapevano muoversi con maestria. Ci sarà chi ricorderà il giorno in cui li ha portati da casa trapiantando un po’ delle sue radici nel nuovo giardino. Sicuramente tutti saranno felici perché saranno visti, riconosciuti e ricordati anche quando non abiteranno più qui.

Chiudo la finestra, la temperatura della stanza inizia ad abbassarsi; non ne sono certo, ma probabilmente è ripreso a piovere; odo ogni tanto il rumore dell’ascensore che si muove tra i piani; il ronzio continuo di sottofondo d’un tratto scompare, la stanza diviene improvvisamente più buia, il computer si mette in stand by. Non accendo la luce, rimango immerso nel mio silenzio. I momenti di una recente giornata mi appaiono con immagini nitide, sono lì, davanti a me.

Il gruppo interdisciplinare è riunito al completo.

Il signor Renzo ha superato i novant’anni ed è stato accolto da poco, dimesso dall’Ospedale ove era giunto per focolaio bronco-pneumonico. Il progressivo aggravarsi del suo decadimento cognitivo e della sindrome ipocinetica lo costringono ormai da settimane a letto. Renzo è devastato dalle complicanze del diabete, porta i segni della malattia ovunque, li porta dentro, ove i reni ormai non funzionano più, li porta all’esterno, in quelle due dita del piede destro scurissime. Già in passato è stato sottoposto ad intervento di triplice by pass coronarico, già un ictus ischemico anni fa ha indebolito la metà destra del suo corpo. Tiene gli occhi chiusi per tutto il tempo, non parla e la sua capacità deglutitoria è praticamente assente. Renzo tuttavia è amato, è amato molto dalla figlia che vuole per lui una riabilitazione la più intensiva possibile, vuole rivederlo camminare.

Renzo è in prossimità del suo traguardo, é alla fine del suo viaggio; ha camminato per molti anni in salute e, nella malattia, è passato attraverso il tecnicismo della medicina; ha vissuto momenti difficili in cui ogni successo medico raggiunto per lui significava allontanamento della morte. Ora Renzo sa che non sarà possibile tornare indietro e ci chiede di aiutarlo; dobbiamo aiutarlo nella sofferenza, dobbiamo aiutarlo a vivere gli ultimi giorni con dignità, circondato dall’affetto dei suoi cari; Renzo chiede di aiutare soprattutto sua figlia ad accettare la fine della sua esistenza, a non negare la morte, a non vedere la sua morte come il fallimento della medicina, ma come qualcosa di ineluttabile, ma naturale, che giungendo alla fine di un lungo cammino, contribuisce a valorizzarlo per intero.

Questo sarà il nostro obiettivo; uno sguardo d’intesa, il piano assistenziale dell’ospite per i prossimi giorni è redatto; i membri del gruppo multidisciplinare si alzano, rumore di sedie.

Sono praticamente già in piedi nel cuore della notte quando suona il telefono. Dall’altro capo della linea, l’infermiera mi avverte che un ospite è tachipnoico e lamenta mancanza d’aria. La sua pressione arteriosa è elevata; esco dalla mia stanza, allungo il passo, prendo la prima rampa di scale ed arrivo rapidamente al piano. Sono convinto che senza zoccoli sarei molto più veloce e in altri tempi non avrei nemmeno avuto il fiatone. Nella sua stanza, l’ospite è seduto sul letto, è magro, fortemente dispnoico, all’auscultazione polmonare sono distinguibili sibili e qualche rantolo, la pressione arteriosa è molto elevata, le pieghe del suo collo pulsano rapide; leggo nell’anamnesi demenza di grado avanzato, infarto acuto del miocardio dieci anni fa. Mi guarda con l’angoscia negli occhi, non riesce a proferire parola; un anziano dietro episodi acuti così importanti vede sempre la sua vita in pericolo, sente la morte imminente. Gel elettroconduttore, applicazione delle derivazioni, on, l’elettrocardiografo fa bene il suo dovere e la carta corre senza intoppi. Sono sollevato, non vedo nel tracciato particolari alterazioni eccetto una tachicardia sinusale. Cercherò di stabilizzarlo con una buona dose di diuretico endovena e per l’indomani prescriverò alcuni esami bioumorali. In effetti dopo due boli generosi di furosemide, qualche puff di salbutamolo ed una trentina di minuti, la crisi sembra risolversi, la pressione arteriosa torna a valori accettabili ed il paziente appare più tranquillo. Sono soddisfatto, do qualche disposizione per la prossima mezz’ora e mi avvio con la cartella dell’ospite in mano per riporla nel raccoglitore. Si chiama Mario, è sposato ed ha un figlio; è stato accolto in Struttura cinque anni fa; una volta era direttore di banca.

Un intervento tempestivo e mirato ha aiutato Mario a superare il suo problema acuto ed ora probabilmente potrà rimanere nel suo letto al calduccio per il resto della notte; l’infermiera lo sorveglierà costantemente ed anch’io tornerò a rivederlo. La presenza costante di personale sanitario ha evitato a Mario un invio in Pronto Soccorso nel cuore della notte quasi certo in circostanze diverse. Rifletto sulla grande possibilità che abbiamo nel nostro setting assistenziale di attuare una terapia medica di ottimo livello evitando ad anziani fragili il trauma della ospedalizzazione;

Mentre sto tornando alla mia scrivania, mi risuonano nelle orecchie le parole della mia paziente Assunta quando mi avvicino al suo letto per visitarla : «Buongiorno dottore, chi l’ha chiamata?». «Ho saputo che ha un po’ di mal di testa, signora». «Lasci in pace questa vecchia di 97 anni, dottore». «Assunta, lo sa che dobbiamo cercare di arrivare a 100». «Questo non dipende né da me né da lei, dottore». «Ha ragione» e sorrido incassando quello sberleffo che affettuosamente spesso mi rivolge.

Suona il telefono, è l’infermiera dalla nostra sede distaccata. La notizia che mi trasmette non mi coglie impreparato: i parametri vitali di Maria non sono rilevabili. La paziente è deceduta. Mi siedo, metto ai piedi le mie scarpe, raccolgo nella borsa il necessario e mi infilo il giaccone. Quando esco nel cortile per prendere la macchina è ancora buio. Il cancello automatico si apre, esco per mettermi in viaggio verso Maria. Lungo la strada non posso fare a meno di pensare ad una serie di quadretti di quotidianità che Maria ci ha regalato in questi anni di vita con noi. Gli ultimi giorni Maria è stata serena, non ha mostrato sofferenza; è morta nel suo letto, è morta nel letto ove ha dormito in questi anni, è morta come desiderava, tra le persone che più le erano familiari. Mentre percorro l’ultimo tratto di strada trovo anch’io la mia serenità: siamo rimasti vicini a Maria fino al suo ultimo momento di vita, come le avevamo silenziosamente promesso sin dal giorno del suo ingresso. Le prime luci dell’alba svegliano il paese, qualche lampione inizia a spegnersi. Tra poco più di due ore finirò il mio turno. I netturbini intanto iniziano la loro giornata.