QUANDO PRENDERSI CURA, ESISTE UN LIMITE?

a cura dei dott. Enzo Manzato e dott. Valter Giantin Clinica Geriatrica - Università degli Studi di Padova. Atti del convegno 6 maggio 2016 "Terminalità e Residenzialità"

Il problema quando e dove si ponga il limite alla cura e quali criteri vi possano essere per determinarlo, è sicuramente una delle sfide più importanti che i singoli professionisti, ed ancor più le diverse organizzazioni sanitarie, dovranno porsi nel prossimo futuro. Il sensibile aumento dell’aspettativa di vita e la significativa riduzione della natalità stanno infatti caratterizzando i paesi del mondo occidentale, determinando una trasformazione della struttura demografica con importanti influenze sulle dinamiche culturali e sociali, ma anche sulle scelte etiche in economia e inpolitica sanitaria.

E’ da segnalare che all’evidente allungamento della durata della vita non sempre corrisponde un effettivo miglioramento della sua qualità: con l’aumento dell’età si assiste spesso ad una riduzionemedia della autosufficienza, aumenta l’isolamento sociale dell’anzianoe il numero dipatologie co-presenti (quali insufficienza cardiaca, respiratoria, neurologica, renale ed epatica).

Il fine vita si carica perciò di progressivi bisogni che richiamano il medico e il team assistenziale, tramite il coinvolgimento del paziente e dei familiari, a definire un percorso di cura che consideri la necessità di bilanciare i costi umani ed i benefici realmente attesi (Gristina et al., 2014).

Tra le altre patologie, la demenza emerge come una delle principali causa di disabilità e dipendenza in età avanzata, dove spesso la sopravvivenza è lunga e non sempre stimabile (Wolfson et al., 2001), e dove la qualità di vita è spesso compromessa.Secondo il Rapporto Alzheimer del 2015 ci sono attualmente in Italia 1.241.000 persone con demenza, che diventeranno 1.609.000 nel 2030 e 2.272.000 nel 2050, con 269.000 nuovi casi nel 2015 e costi che ammontano a 37.6 miliardi di euro; convive con la demenza l’80% degli anziani nelle case di riposo (World Alzheimer Report, 2015). In particolare, diversi studi in letteratura hanno messo in luce come nel paziente con quadro di demenza avanzata, giunto alla fine della vita, siano aumentati i rischi di infezione e le problematiche riguardanti la possibilità di proseguirel’idratazione e la nutrizione per via naturale(Di Giulio et al., 2008;Mitchell et al., 2009).La discussione in merito alla nutrizionee idratazione artificiale costituisce infatti una della questioni maggiormente dibattute quando si parla di assistenza nel fine vita e i pareri delle varie istituzioni possono apparire a volte contrastanti fra loro.Un’altra problematica rilevante nella gestione del paziente con demenza avanzata riguarda la difficoltà di bilanciare gli obiettivi di un trattamento antibiotico con lo spettro dei potenziali benefici e rischi legati alla decisione di iniziare o non iniziare un trattamento, o sospenderlo (Stiel et al., 2012).

Nell’ambito del progetto E.L.D.Y.(End of Life DecisionsstudY), condotto dal gruppo di lavoro della Clinica Geriatrica dell’Università di Padova, attraverso la somministrazione di un questionario dedicato si è analizzato: 1) le decisioni di fine vita compiute da Medici e Infermieri. 2) le attitudini, i sentimenti e i comportamenti inerenti il fine vita di operatori sanitari impiegati nell’assistenza del paziente anziano; 3) le relazioni tra le attitudini o decisioni di fine vita con sentimenti e pensieri inerenti la morte, pregressa formazione o caratteristiche personali dei professionisti(Giantin et al., 2012).Le percentuali riscontrate di decessi preceduti da una decisione di porre fine alla vita (soppressione della vita senza esplicita richiesta del paziente, eutanasia, suicidio medicalmente assistito, decisione di non trattamento) erano pari al 20.8%; l’11.8% riguardava decisioni di non-trattamento. Emergevano 9 casi di soppressione della vita senza esplicita richiesta da parte del paziente e due casi di eutanasia, uno riportato da un medico e l’altro da un infermiere. Non sono stati dichiarati casi di suicidio medicalmente assistito.

In tale lavorosono stateindagate le attitudini di medici e infermieri di due regioni del Nord Italia (Veneto e Trentino Alto-Adige) e una del Centro Italia (Marche) in merito alla somministrazione di antibiotico-terapia, idratazione e nutrizione artificiale nel paziente con demenza e differenti aspettative di vita (più di 6 mesi, tra 6 mesi e 1 mese, meno di 1 mese)(Pengo et al, 2016).Tale sezione dellostudio ha messo in luce come la maggior parte dei professionisti, quando l’aspettativa di vita dei pazienti dementi è maggiore di 6 mesi, acconsenta alla somministrazione deitre differenti tipi di terapia. E’ da segnalare che a differenza di altri studi sull’argomento, il nostro è stato il primo a considerare in modo separato l’idratazione e la nutrizione artificiale e ciò ha facilitato notevolmente la comprensione di come i sanitari vedano in modo netto una separazione tra queste forme di sostentamento a fine vita. L’idratazione artificiale tra le terapie proposte si dimostra essere sempre il trattamento che più frequentemente viene somministrato dal team curante. Viene ancheconfermato un approccio che può essere definito “intensivo” nei confronti dei pazienti dementi, coerentemente con quanto osservato in altri precedenti studi, anche in fase avanzata di demenza.Tuttavia, l’accordo alla somministrazione di terapia decresce più ci si avvicina alla morte e tale fatto appare molto più evidente considerando la sola nutrizione artificiale, soprattutto se consideriamo le regioni del Nord Italia. E’ emerso inoltre come ben il 10-19% dei professionisti non ritenga utile somministrare alcuna terapia anche se il paziente ha aspettative di vita superiori ai 6 mesi, solo in quanto affetto da demenza. Combinando le risposte fornite dai partecipanti (tabella I) si conferma come l’accordo con la somministrazione dei tre trattamenti tenda a diminuire poco al diminuire dell’aspettativa di vita nel caso dell’idratazione artificiale (11%), in modo invece più forte per la nutrizione artificiale (25%), con un valore intermedio (20%) per la terapia antibiotica.

Di particolare interesse sono i risultati relativi ai possibili antecedenti e alle attitudini relative alla non somministrazione di terapia antibiotica, nutrizione e idratazione artificiale, quando l’aspettativa di vita passa a meno di 1 mese. E’ emersa infatti una maggiore tendenza a non somministrare più l’antibiotico-terapia e la nutrizione artificiale quando l’aspettativa di vita scende sotto il mese tra i professionisti impiegati in ambito geriatrico. Inoltre, i professionisti con una precedente formazione in Bioetica tendono a somministrare meno l’antibiotico-terapia a fine vita e fra questi solo gli infermieri tendono a somministrare meno anche la nutrizione artificiale. E’ emerso anche il ruolo del pensiero alla propria morte,di fronte al paziente a fine vita, che comporterebbe, soprattutto nei medici, un aumento dell’accordo con la sospensione della nutrizione e idratazione artificiale. Infine le convinzioni religiose e filosofiche dei professionisti nel nostro studio si associano positivamente all’attitudine di non somministrare più la nutrizione artificiale quando l’aspettativa di vita scende a meno di 1 mese.

Nel progetto E.L.D.Y. sono stati anche approfonditigli aspetti comunicativi di medici, infermieri e psicologi con i pazienti e i loro famigliari in merito ad argomenti di fine vita (Iasevoli M. et al., 2012).I medici italiani sono apparsi più comunicativi con i familiari rispetto che con i pazienti competenti,in confronto ai colleghi europei. Gli infermieri, invece, avevano un atteggiamento abbastanza sovrapponibile sia con i parenti che con i pazienti stessi. In particolare, appariva decisamente minore in Italia, rispetto ai colleghi europei, la propensione a parlare con i pazienti dell’inguaribilità della malattia e dell’opzione di non attuare o sospendere trattamenti di sostegno vitale. Viceversa, per quanto riguarda invece la comunicazione dei medici con i familiari del paziente competente in fase terminale, senza informarlo, lo studio ha permesso di rilevare una maggiore propensione, sempre rispetto ai colleghi stranieri, a discutere dei diversi temi. La comunicazione nel fine vita sembra quindi essere influenzata sia dall’argomento della discussione sia da chi la compie (medici, infermieri o psicologi).

Abbiamo infine rilevato comesolo il 49.2% dei rispondenti provenienti dal Nord Italia aveva una precedente formazione in Bioetica vs il 29.5% dei professionisti delle Marche ma come sia elevata la richiesta di una maggiore formazionein tale ambito (maggiore del 90% dei medici e infermieri sia delle Marche che del Veneto-Trentino Alto Adige). Allo stesso modo, solo il 42.8% deimedici e infermieri del Veneto e Trentino Alto Adige aveva una precedente formazione in Cure Palliative e ancor meno (27.4%)dei professionisti delle Marche, mentre la quasi totalità (98.9% e il 94% rispettivamente) desiderava una formazione più ampia in Cure Palliative.

Purtroppo non è possibileriportare qui per esteso la restante ed enorme mole di risultati emersi dallo studio E.L.D.Y., i quali sono stati riassunti in una recente pubblicazione (Curare il fine vita? Giantin V. ed., 2014), né esaurire in poche righe un argomento, tuttora oggetto di un acceso dibattito, caratterizzato da una così ampia pluralità di principi etico-filosofici, soggetti coinvolti, prassi mediche, socio-sanitarie e culturali in gioco.

Si può concludere affermando che nel fine vita rimane importante il dovere, da parte dei diversi professionisti di prendersi cura del paziente, prevenendo per quanto possibile ogni sofferenza,ed evitando sempre l’abbandono terapeutico.Se accertato in maniera condivisa che non sussiste l’abbandono terapeutico, solo allora, nel nome di un altrettanto diniego all’accanimento terapeutico, in una valutazione obiettiva del singolo caso, si potrà riconoscere quali siano le terapie e le pratiche non necessarie e meritevoli di essere sospese (Quando finisce la vita? Giantin V. ed. 2013).