RAPPORTI INTERPERSONALI FRA I PROFESSIONISTI ED I FAMILIARI

a cura di dott.ssa Chiara Bigolaro, psicologa AltaVita I.R.A.

Il passato e il presente

210 anni sono passati. Per noi, spesso dimentichi della storia, sono un lasso temporale notevole. L’Ente dalla sua fondazione si è radicalmente trasformato, ma nel corso dei decenni non è mai venuto menolo spirito delle sue origini, ovvero spendersi per il bene dei padovani. Forse potrà essersi in qualche frangente appannato, però, rileggendo la storia di questo Istituto e le sue trasformazioni anche organizzative, si avverte la volontà di essere sempre al passo con i bisogni del tempo se non addirittura precederli in un’ottica di miglioramento continuo.

Sappiamo che l’opera benefica ebbe origine nel 1820 per volontà del canonico Giusto Antonio Bolis, suo primo Benefattore e Fondatore, in un periodo storico problematico. Grossi T. e Jori F. (2010) riportano che le cronache di alloradescrivono una Padova “in cui vivono 34.646 abitanti, tra questi 1002 studenti universitari; pochissime le attività “industriali”: 6 costruttori di cappelli; 5 che si dedicano ai tessuti di seta, 11 orefici, una fonderia di campane …,”. Ci si è appena lasciati alle spalle la grande carestia del 1817;dati redatti subito dopo, riportano che “nel Padovano vi sono 142.012 contadini su una popolazione di 287.672 abitanti; un elevato numero di miserabili (21.554 poveri, 5.155 famiglie indigenti); ruralità imperante, che rende ancora bene..”.

Nella Casa di Ricovero si accoglievano gli invalidi poveri della Citta, giovani e vecchi, dando loro vitto alloggio e assistenza infermieristica e veniva offerta anche assistenza domiciliare alle famiglie più povere. La Casa di Ricovero era presso l’ex monastero di S.Annaè lì sarà ubicata fino al 1882. Ancor oggi alcuni padovani hanno ben presente il modo di dire “andare aS.Anna” per indicare quando una persona anziana ha bisogno di assistenza e di una Casa di Riposo.

Ed oggi?

Una testata locale del 17 gennaio di quest’anno così titolava un suo articolo: “Più morti che nati, così Padova invecchia”. I residenti al 31 dicembre 2014 erano 211.210 e l’età media dei padovani è di 46 anni(44 per gli uomini, 48 per le donne). L’aspettativa di vita si attesta ormai attorno agli 80.3 anni per gli uomini e 84.9 per le donne. Secondo i dati forniti dal Settore Programmazione e Controllo Statistica del Comune del triennio 2014-2016: “La popolazione tende ad un progressivo invecchiamento.., ogni 4 padovani uno ha più di 65 anni; 1 padovano su 12 ha più di 80 anni. Territorialmente il quartiere più anziano è il centro, con 271,37 anziani ogni 100 giovani…Nel movimento naturale della popolazione residente, i decessi continuano a superare le nascite e questo divario si accentua di più negli ultimi anni”.

Anche Padova pertanto si inserisce nel trend dell’invecchiamento globale. I fattori sottostanti, testimoniati anche dai dati sopra riportati, sono: l’allungamento dell’aspettativa media di vita, la ridotta natalità e l’invecchiamento della popolazione dei “baby boom”.

Paolisso G. e Boccardi V. (2014) evidenziano la complessità e le conseguenze di questo fenomeno: “se da un lato la longevità è di per sé una conquista, dall’altro l’invecchiamento demografico con modificazioni strutturali della società ha numerose implicazioni sia sul piano economico, che previdenziale ed assistenziale. Infatti, il numero sempre crescente di anziani si traduce in richieste sempre maggiori di servizi socio-sanitari e di cura. La transazione demografica si associa a profondi cambiamenti epidemiologici, contraddistinti dalla marcata riduzione nell’incidenza delle malattie infettive e dall’affermarsi di patologie cronico-degenerative, che caratterizzano le società con maggiore percentuale di anziani. La presenza di tali patologie, oltre ad aumentare la mortalità, determina un aumento del rischio di sviluppare disabilità…”. Fra gli anziani con più di 85 anni (detti anche oldestold) si riscontra il maggior tasso di morbilità e disabilità. Molti di loro sono “soggetti fragili”, in quanto affetti da patologie multiple, con stato di salute instabile e frequentemente disabili, con un maggior rischio di morte.

Le conseguenze di un invecchiamento con tali caratteristiche, ovvero intenso e veloce, determinano anche un aumento della necessità di assistenza a lungo termine.

Riassumendo in poche parole: viviamo mediamente più a lungo, vanno aumentando le patologie connesse all’invecchiamento e sempre più spesso le persone anziane hanno bisogno di assistenze che si protraggono nel tempo. Che fare? Quando qualcosa non va di solito il nostro pensiero corre alla famiglia, essendo per noi un punto di riferimento molto importante, per gli antropologi l’istituzione fondante della società.

Nel corso del tempo anche la famiglia è cambiata e sta cambiando. Dal modello della famiglia estesa si è passati a quello della famiglia nucleare. La prima era contraddistinta dalla convivenza di membri appartenenti a più generazioni, mentre la seconda è formata solo da parenti di primo grado. Almeno fino agli anni del dopoguerra, la famiglia estesa rappresentava la norma in Italia. Le nascite, le malattie e le morti erano eventi condivisi garantendo una sorta di rete assistenziale interna, seppur non esente da problematiche etensioni o conflittualità più o meno mascherate.La famiglia nucleare ha consentito ai suoi componenti di acquisire autonomia, ma al contempo ha portato ad un maggior carico di responsabilità interna e ad una riduzione di supporto garantito dal modelloprecedente. La crisi dell’istituzione del matrimonio e l’aumento delle separazione e dei divorzi hanno poi introdotto sulla scena altre tipologie familiari, fra cui le famiglie monoparentali e le famiglie ricomposte.

A Padova,sempre secondo i dati comunali al 31 dicembre 2013, “le famiglie residenti sono 98.918, con una crescita di 7.696 unità (+8,44) rispetto alla fine del 2000. Aumentano i nuclei familiari unipersonali, passati dai 32.848 del 2000 ai 42.319 del 2013 e che rappresentano ora il 42.78% delle famiglie padovane. La dimensione media delle famiglie per il 2013 è di 2.08 componenti. Continuano a diminuire i nuclei costituiti dalla coppia con o senza figli (quasi 2.000 unità in meno negli ultimi 5 anni) per lasciare spazio a tipologie familiari più fragili o comunque meno strutturate come quelle formate da un solo genitore o con legami di parentela o di affinità diversi”.

AltaVita per dare risposta ai bisogni dei padovani di oggi e delle loro famiglie, offre una gamma di proposte che include soluzioni residenziali e centri diurni. Le prime perpersone anziane autosufficienti e non autosufficienti che hanno bisogno di cure e assistenza; i secondi peranziani che, pur necessitando di assistenza e di sostegno durante il giorno, sono ancora in grado di rimanere nel loro contesto abituale di vita.

La Carta dei Servizi dell’Ente, così parla:

“AltaVita-Istituzioni Riunite di Assistenza-IRA è una Istituzione Pubblica di Assistenza e Beneficenza (IPAB) sorta a Padova nel 1821 e da allora sempre attiva.

AltaVita svolge un servizio pubblico a finalità sociale.

La missione principale è di fornire ospitalità ed assistenza agli anziani autosufficienti e non autosufficienti per i quali non sia più possibile la permanenza nel proprio ambiente familiare.

Con le sue strutture e le sue attività AltaVita-IRA afferma e contribuisce a rendere effettivo per i cittadini il diritto di scegliere tra i diversi soggetti erogatori, con le modalità e i limiti fissati dalla legislazione vigente in particolare per i servizi distribuiti sul territorio.

L’attività di tutela e di promozione della salute dell’anziano è finalizzata al rispetto della dignità personale ed al mantenimento delle capacità fisiche, mentali e sociali, al fine di garantire una buona qualità di vita”.

 

Qualità di vita, qualità di assistenza

Il concetto di qualità della vita si esprime in termini individuali e personali. L’Organizzazione Mondiale della Sanità così la definisce: “la percezione soggettiva che un individuo ha della propria posizione nella vita, nel contesto di una cultura e di un insieme di valori nei quali vive, anche in relazione ai propri obiettivi, aspettative e preoccupazioni. Riguarda quindi un concetto ad ampio spettro, che è modificabile in maniera complessa dalla percezione della propria salute fisica e psicologico-emotiva, dal livello di indipendenza, dalle relazioni sociali e dall’interazione con il proprio specifico contesto ambientale”.

Il benessere e la qualità di vita della persona residente in Istituto dovrebbeessere l’obiettivo principale del prendersi cura.

Per realizzare quanto sopra descritto, l’Ente mette a disposizione degli utenti vari Servizii cui componenti, lavorando in equipe nelle diverse Residenze, integrano le loro professionalità e sensibilità per dare risposte di qualità ai bisogni di ciascuno. La persona viene presa in carico dal momento dell’ingresso e seguita nel tempo di permanenza fino al termine della sua esistenza, non tralasciando per tutto il percorso il continuo dialogo con la sua rete familiare.

Lavorando insieme, noi diverse figure professionali, ci adoperiamo per realizzare la formula assistenziale che caratterizza AltaVita, ovvero una risposta sanitaria, riabilitativa, assistenziale e sociale integrata, erogata in un unico contesto e in tempo reale in funzione delle necessità e dei bisogni della singola persona non autosufficiente.

Per questo mio contributo mi soffermerò su aspetti della residenzialità riguardantesoggetti non autosufficienti, tralasciando le altre realtà che fanno parte della dimensione di AltaVita.

Memore delle teorie farò riferimento soprattutto a quello che, a mio avviso, è il vero patrimonio di questo Ente, ovvero i contributi esperienziali dei numerosi ospiti, ma preferisco chiamarle Persone, che hanno trascorso qui l’ultima parte della loro esistenza e concluso la loro vita, assistite e curate dal Personale dell’Istituto; e quando possibile, accompagnate dai loro cari.

Secondo l’esperienza acquisita, le fasi della residenzialità possono essere distinte in: accoglienza/ingresso, primo mese, permanenza, fine vita, morte.

Il momento in cui la persona non autosufficiente giunge a noi è preceduto da passi estremamente significativi per la rete familiare. La compilazione della domanda per l’istituzionalizzazione, rappresenta uno di quelli più salienti e faticosi. Con questo atto si sancisce e ufficializza che uncomponente della famiglia ha bisogno di assistenza qualificata e si dichiara l’impossibilità di assisterlo o di continuare ad assisterlo a domicilio. Spesso la decisione e la scelta della struttura vengono compiute dai familiari, o perché gli anziani sono già minati nelle loro capacità decisionali, oppure perché si preferisce delegare, o ancora i familiari si fanno portavoce di una volontà espressa dal loro congiunto tempo addietro.

Poi inizia il momento dell’attesa della chiamata. A volte arriva a breve, a volte i tempi si allungano e l’attesa può concorrere ad alimentare dimenticanze o accantonamenti del pensiero di una prossima separazione. In una giornata come tante squilla il telefono; nell’arco di pochi giornil’anziano lascia quello che fino a quel momento gli era noto per andare incontro a quello che verrà, accompagnatose possibile da qualche suo familiare. Da lì in poi,nello spazio condiviso fino a quel momento, ci sarà un vuoto anche fisico che contribuirà a ricordare che l’altro ora è altrove.

Oppure dalla struttura intermedia o dall’ospedale ci si traferisce in Istituto, ultima tappa di una serie di peregrinazioni esterne, che già da tempo avevano sancito la separazione da casa. Affaticando, soprattutto psicologicamente, la persona non più autosufficiente e coloro che l’hanno accompagnata nel tragitto.

 

Vita d’Istituto o Istituto di Vita?

Entrare in istituto per trascorrere l’ultima parte della propria esistenza, è una scelta che riguarda l’anziano non più autosufficiente, ma anche il sistema familiare di appartenenza.

Le motivazioni dell’istituzionalizzazione sono varie. Spesso è una scelta forzata da eventi imprevisti che si sono abbattuti sul singolo, limitando a tal punto la sua autosufficienza da dover ricorrere ad assistenza specialistica; sovente è l’ultima tappa di un lungo percorso di assistenza erogato dalla rete familiare che, esauriti gli aiuti domiciliari e consumate le sue ultime risorse disponibili, chiede aiuto; a volte inserimenti temporanei si tramutano in definitivi; a volte sì è reduci da precedenti istituzionalizzazioni che hanno deluso e si è alla ricerca di qualcosa che soddisfi i bisogni disattesi; a volte la persona anziana stessa, non più autosufficiente ma ancora capace di agire sull’ambiente e di scegliere, preferisce l’inserimento in Istituto ad altre soluzioni. Di certo ognuno arriva qui con le sue stanchezze esistenziali, con le sue limitazioni connesse al tempo trascorso, con il suo bisogno di assistenza più o meno marcato e con sue aspettative.

La maggior parte delle persone non autosufficienti ospitate nei Centri Servizi Beato Pellegrino e Palazzo Bolis presentano polipatologie, moltissimi di loro oltre ad essere sofferenti nel corpo, lo sono anche nella mente. La demenza, nelle sue varie forme e diversi livelli di gravità, è la patologia che accomuna i più.

Il Medico e/o il Coordinatore della Residenza accolgono la Persona al suo arrivo; inizia la sua conoscenza. I familiari che l’accompagnano sono preziosi,con il loro aiuto possono essere ricostruiti i passaggi precedenti l’ingresso, si possono avere notizie di carattere sanitario e informazioni sulle sue abitudini. Interlocutori ancora più preziosi lo diventano nei casi in cui l’anzianonon è più in grado di parlare di sé, essendo le sue funzioni cognitive estremamene compromesse.

Ripercorrere sommariamente la vita della persona non più autosufficiente è molto importante, perché, come insegna Kitwood T., le varie forme di demenza si inseriscono nelle esistenze individuali, dando ad ogni malato connotazioni peculiari che spesso trovano significato solose rilette avendo presente il suo percorso di vita.

I familiari rispondono alle domande, ma hanno anchebisogno di avere risposte. L’organizzazione di una Residenza per anziani porta in sé elementi nuovi che possono suscitare nei non addetti ai lavori bisogno di spiegazioni. Dare risposte chiare ed esaustive concorre ad alimentare in loro aspettative adeguate e consente di comprendere meglio cosa verrà proposto al congiunto nei giorni e nelle settimane che verranno.

Accogliere e presentarsi non è pura formalità, ma è il primo passo per costruire buone alleanze.

All’ingresso in struttura e nei primi giorni è importante condividere con i familiari alcuni punti estremamente rilevanti:

Portare una persona anziana in Istituto non significa abbandonarla, ma consentirle di ricevere cure e assistenza qualificate. Il distacco fisico non è un distacco emotivo.

In molti casi ricorrere ad una struttura non è più una scelta, ma l’unica soluzione possibile e praticabile. Soprattutto nei casi di persone affette da forme di demenza di grado moderato-grave. Quindi il pensare che se si fosse stati abbastanza bravi si sarebbe potuto evitare l’istituzionalizzazione è sbagliato, oltre che deleterio.

Importante è preservare con il proprio caro una comunicazione chiara e autentica. Rispondendo alle sue domande onestamente.

Informarli che le prime settimane di permanenza saranno un periodo faticoso per l’anziano, perchéentrerà in contatto e sarà chiamato a confrontarsi con stimoli e persone nuoveall’interno di un’organizzazione comunitaria.

Tobin S. (1989) parla di “Sindrome del primo mese” riferendosi alla reazione di adattamento dell’anziano alla nuova collocazione. Dopo la crisi di questo periodosi osserva o un recupero delle condizioni di salute antecedenti il ricovero, oppureun progressivo deterioramento e un aggravamento delle condizioni fisiche e psicologiche. Tra i fattori che possono determinare il secondo processo vengono annoverati, oltre che peculiari caratteristiche personali e qualità e adeguatezza dell’assistenza, anche:

  • il valore negativo attribuito alla nuova collocazione, che può essere avvertita come mortifera e sviluppare nella persona un atteggiamento di ritiro e di rinuncia;
  • i conflitti familiari che possono accompagnare o essere presenti prima dell’inserimento in istituto.

Nel primi giorni di permanenza ogni professionista incontra il nuovo arrivato, valuta i suoi bisogni e definisce per lui e, quando possibile, con luispecifici interventi che verranno poicondivisi con il gruppo di lavoro. Anche lo psicologo applica la procedura previstae si adopera per stabilire un contatto con i familiari. La collaborazione con loro gli consentedi sanare eventuali ricostruzioni autobiografiche lacunosedell’ospite (dovute al deterioramento cognitivo), diripercorrere le sue abitudini di vita pregresse, di condividere eventuali criticità che hanno contraddistinto il periodo antecedente l’istituzionalizzazione. L’incontro diventa anche l’occasione perché la famiglia possa trovare uno spazio in cui potersi raccontare in libertà, esternando le eventuali fatiche passate e riflettendo sull’oggi e sul divenire.

Si evince quindi che accogliere l’anziano non autosufficiente senza accogliere i familiari, se esistenti e presenti, è inefficace.

Non tutti i familiari, però, riescono ad affidarsi alla struttura; chi non ci riesce, non riuscirà nemmeno ad affidarle il suo caro o, se lo farà, tenderà consapevolmente o meno a mettere in attoresistenze di varia entità, interponendosi costantemente fra il “suo” anziano e gli operatori e ostacolando quindi il lavoro di assistenza e di cura. Spesso la conseguenza è che l’anziano, non percependo fiducia nell’equipe da parte dei suoi familiari, mantienevivo il vissuto di estraneità e di sradicamento percepito al momento dell’ingresso.

Settimana dopo settimana le attività proseguono, ognuno riceve le cure e l’assistenza necessarie, le persone vengono inserite nelle attività strutturate in risposta ai lorobisogni e nel rispetto delle loro caratteristiche individuali. I nuovi arrivati entrano in relazione con altri residenti, stabiliscono legami di conoscenza e/o di amicizia. Assistono a tutto ciò che è vita, ma anche a tutto ciò che è morte.

I familiari scelgono se e quando essere presenti nella quotidianità; volta dopo volta osservano la complessità del lavoro di cura e di assistenza,gradualmente iniziano ad acquisirepunti di riferimento e a sentirsi loro stessi in un ambiente non più estraneo essendo venuta meno la tensione dei giorni iniziali. C’è più spazio per un sorriso e per una battuta. La scelta dell’Istituto può facilitarli nel trascorrere del tempo con il loro caro senza essere appesantiti da responsabilità assistenziali, offre la possibilità di condividereattività di carattere culturale e ricreativo partecipando insieme alle numerose iniziative che vengono organizzate all’interno dell’Ente. Questa nuova dimensione può favorire la riscopertadi quelle narrazioni e di quegli affetti che la fretta e le incombenze quotidiane avevano costrettoun tempo ad accantonare o a posticipare eternamente. A quanti si erano fatti maggiormente carico dell’assistenza pre-ingressopuò consentire diriprendere in mano le proprie esistenze, riscoprendo e coltivando quei ruoli non goduti appieno(come quello di moglie, marito, madre, padre, o nonni) e migliorando così anche la loro qualità di vita. In Istituto il legame con il genitore o la sorella o il fratello o il coniuge anziano non viene meno, ma trova altri spazi e tempi per essere vissuto, facilitando l’eventuale scoperta di sfaccettature prima inesplorate.

Ovviamente l’Istituto in quanto organizzazione impone degli orari, vincola alla condivisione di luoghi e di norme. Da un punto di vista strutturaleil Centro Servizi Palazzo Bolis, l’ultimo tassello della lunga storia di AltaVita, risponde agli attuali criteri spazio-persona. Nelle altre Residenze quello che è limite, e può avere a volte il sapore della forzata condivisione, può diventare occasione per interfacciarsi con altri e stabilire nuove relazioni.

La vita che rimane scorre, più o meno lentamente si avvicina la fine, con il carico di pesantezze emotive che ne consegue, soprattutto per la rete familiare.

Ad un certo punto la persona non è più in grado di camminare e si deve ricorrere alla carrozzina. Aleggia nell’aria la domanda: “Quando riprenderà a camminare?” foriera di aspettative non più realizzabili. A volte l’anziano,compromesso nelle sue facoltà cognitive, seduto sul suo ausilio personalizzato, spiega al familiare che lui è capace di camminare, ma nessuno glielo fa fare. Inconsapevole del suoreale bisogno assistenziale. L’altro nell’ascoltarlo ha un’ennesima manifestazione di come la demenza stia imbevendo la quotidianità del padre o della madre, o della sorella, o del fratello. Il progressivo cambio di ausili concorre a sancire l’avanzata del peggioramento. Perdita di funzionalità che è visibile non solo al familiare, ma anche alla persona stessa e ai suoi coetanei.Il confronto con l’altro appartiene alla natura umana. Genera paure, sofferenza, può alimentare invidie.

Al progredire del declino anche l’alimentazione deve essere rivista:determinati cibi vengono proibiti perché la persona non è più in grado di deglutirli in sicurezza, la consistenza degli alimenti cambia, l’anziano un tempo autonomo nell’alimentazione deve essere imboccato. Con l’aggravarsi del quadro clinico può accadere che il familiare che prima lo aiutavanon possa più farlo. Questicambiamentipossono essere difficili da accettare. Sono i segnali inequivocabili di ulterioripeggioramenti. Dolorosi. La malattia fa il suo decorso. Qualcuno si chiede: “Ma allora le cure a cosa servono?”In queste situazioni il confronto con un professionista è indispensabile. Ricevere spiegazioni sul decorso delle patologie aiuta a capire cosa sta succedendo, anche se, esperienza insegna, il sentire spiegazioni non implica farle istantaneamente proprie ed accettarle.

Si comprende quindi che la rete familiare, con il trasferimento dell’anziano in Istituto, è chiamata a trovare nuovi modi di relazionarsi con il proprio caro (per salvaguardare ruoli e legami) e, al contempo,a comunicare e quindi rapportarsi con i diversi componenti del gruppo di lavoro. Lo psicologo può essere di notevole aiuto in questi percorsi, che vanno letteralmente costruititi giorno dopo giorno.

 

La Fine della Vita

All’approssimarsi del termine dell’esistenza della persona ospite entrano in scena questioni riguardanti la Fine della Vita.

Più voci oggi sostengono che le Istituzioni per anziani dovranno essere sempre più dispensatrici di cure palliative, in risposta alla “sofferenza terminale” sperimentata dagli anziani affetti di demenza. La cura delle persone stesse con diagnosi di demenza e la comunicazione diretta con loro dovranno probabilmente essere riviste anche nelle fasi inziali.

Anche il Comitato Nazionale per la Bioeticaalla luce della riflessione scientifica, bioetica e biogiuridica, raccomanda che il malato di demenza sia riconosciuto come persona in ogni fase della sua malattia; ritiene che vadano evitate indebite forme di trattamenti sproporzionati o di abbandono terapeutico, …; che vada garantito un appropriato accesso alle cure palliative e promossa l’assistenza socio-sanitaria integrata e flessibile; che sia implementata una formazione specializzata del personale sanitario, degli assistenti sociali e dei „caregiver‟, al fine di migliorare la considerazione dei bisogni della persona affetta da demenza e l’informazione, la formazione e la sensibilizzazione sociale a favore dei malati di demenza e dei loro diritti.

Qualora le decisioni della Fine Vita debbano essere prese dal caregiver, dovrebbero sempre rispettare il sistema di valori, le convinzioni e gli orientamenti che il paziente ha espresso nel corso della sua vita.Sembra quindi scontato aggiungere che anche le condizioni di vita del paziente (ambiente, cura della persona), fino alle limitazioni alla libertà personale finalizzate a preservare la sua incolumità, dovrebbero essere implementate con il massimo rispetto del paziente stesso, cercando per quanto possibile di ricercare l’adesione della persona per non aggiungere sofferenza. Quando ciò sembra essere in conflitto con il benessere dei familiari diventa necessario fornire un adeguato sostegno psicologico (counseling) con annesse indicazioni pragmatiche per i familiari così da alleviare lo stress derivante dalla malattia e dalla gestione quotidiana del paziente.

La nostra esperienza riporta che spesso i familiari delle persone residenti preferiscono che i loro cari muoiano in Istituto, preferendolo all’ospedale. La Residenza di riferimentonel corso della permanenza è divenuta la loro casa “altra”. Se le condizioni della persona al momento dell’ingresso non erano critiche, probabilmente l’anziano avrà avuto il tempo e il modo di vivere la struttura, di conoscerne gli spazi e di relazionarsi con gli altri. Avrà pertanto acquisito familiarità con queste stanze, con la luminosità, con gli odori, con i rumori, con i suoni, con il tocco e la voce degli operatori e degli altri professionisti. “Legami ambientali”, ma soprattutto “legami relazionali” che concorrono a tranquillizzarlo e a mettere a proprio agio – di rimando- anche il familiare.Ecco perché spesso la richiesta è che la persona possa morire nel suo letto, circondata da ciò che nel corso del tempo ha avuto modo di conoscere e di fare proprio.

Impegnati a tutelare la qualità di vita, siamo chiamati a tutelarne anche il suo atto finale: la morte. Va sostenuto l’ospite nell’avvicinarsi del momento del trapasso e va sostenuta la sua famiglia. Poter fare domande, ricevere indicazioni sulle sue condizioni, aiuta. Spesso ci si interroga sul sentire del malato, si teme uno stato di sofferenza. Il CNB sottolinea l’importanza di curare il dolore anche in questa fase. Il tempo accanto al letto del morente a volte sembra correre velocemente, a volte sembra immobile. Predisporre per i familiari un ambiente confortevole li aiuta, consente loro di percepirsi visti e inseriti nel contesto. Una sedia in più perché si possa stare seduti in due e uno possa tenere la mano all’anziano, qualcosa di caldo da bere, un farsi presenti per un eventuale breve dialogo. Abbiamo accolto l’ospite, ma con questamodalità diamo ulteriore conferma di aver accolto anche la sua famiglia.

AltaVita in via sperimentale ha creato uno spazio innovativo nelle strutture per anziani, viene chiamata stanza “azzurra”. Un stanza singola che consente ai familiari di accompagnare l’ospite negli ultimi giorni della sua vita, in un contesto appartato e protetto. Al momento i più preferiscono rimanere negli ambienti che sono loro noti, assistiti dal personale che ha avuto modo di conoscere l’anziano nel corso del tempo. Ma consentire alla famiglia di scegliere è importante. Nell’ultimissimo tratto di vita del proprio caro, poter scegliere se rimanere nella stanza conosciuta ma condivisa con altri o poter stare insieme in una stanza singola e confortevole, continuando ad essere seguiti dal proprio medico curante, è una scelta aggiuntiva che aumenta il grado di libertà della rete familiare.

 

Alcune riflessioni sul “morire in questa realtà”

In Casa di Riposo e in RSA si muore. Nei loro dialoghi onesti, ma anche estremamente graffianti, gli anziani se lo dicono. E se i nuovi arrivati chiedono loro informazioni su quanto tempo si rimarrà qui, li aggiornano su questa lapalissiana verità; quello che il familiare non dice all’ingresso nel tentativo di proteggere l’altro, glielo dicono i suoi coetanei. Coloro che sono cognitivamente più integri comprendono immediatamente quando qualche loro compagno è morto. Il suo letto rimane vuoto. Un nuovo arrivato sancisce la sua dipartita. A volte la foto di chi è morto, rimane sullo scaffale di chi ancora c’è. Di certo rimane nella memoria di alcuni anziani e nella memora dei professionisti.

Si muore a diverse velocità. Ci sono persone che giungono in Istituto a volte in condizioni estremamente critiche, già molto debilitate nel corpo e nella mente, e muoiono nell’arco del primo mese di permanenza. Ci sono persone che muoiono senza troppi preavvisi, addormentandosi. La morte beata che si augurano molti. Ci sono persone che percorrono tutti i gradini della demenza, fino ad arrivare alla demenza di grado terminale; lentamente il corpo sospende tutte le sue funzioni, il cuore cessa di battere e cala il silenzio. Ci sono persone che, fiaccate nel corpo, preservano un buon grado di lucidità e sono in grado di parlare della loro paura di morire. Ci sono persone che scelgono la morte, in maniera passiva o attiva.

Ci sono storie in cui la morte arriva piano e c’è il tempo per essere a fianco del morente, ci sono storie in cui la morte può solo essere comunicata perché già avvenuta. Si muore di giorno, si può morire di notte, di sabato o di domenica. Acquista perciò importanza il gruppo di lavoro. E’ il gruppo che si fa carico della persona e dei suoi familiari, con la ricchezza e la peculiarità portata da ogni singolo componente.

Gli ultimi momenti degli ospiti che ho seguito sono stati contraddistinti da unicità tali che non possono essere accorpati, ogni storia meriterebbe un suo capitolo. L’atteggiamento con cui ci si avvicina al morente è necessario sia di estrema umanità e professionalità: accompagnamento e spiritualità sono due termini da calare nella pratica operativa.

Si parla di “accompagnamento spirituale del morente”, di “accompagnamento compassionevole”. Lo psicologo, in primis, è chiamato a so-stare con la persona morente e con i familiari che dovessero essergli accanto per dare ascolto alle loro comunicazioni verbali e non verbali e per rispondere ad eventuali domande. Di fronte ad un vita che si sta spegnendo, coloro che gli stanno a fianco spesso si interrogano o riflettono sul senso dell’esistenza, sul senso del dolore, sul percorso condiviso con l’altro.

Poi cala il silenzio. La vita della persona finisce. La persona è morta. Il familiare rimane con un corpo senza vita accanto a sé. Ha inizio il vero e proprio lutto. Anche se, ben sappiamo, spesso il percorso tortuoso della non autosufficienza aveva già portato la famiglia a sperimentare una serie di progressive perdite contenenti tracce significative di lutto.

 

Quel che resta

Nelle Residenze per anziani vita e morte coesistono. Le persone – più o meno anziane – arrivano, spendono il loro tempo e poi se ne vanno; mai nell’indifferenza però. I professionisti in servizio si adoperano per fare sentire la loro vicinanza emotiva ai familiari attraverso i gesti e le parole, secondo le proprie sensibilità e competenze. Gli altri anzianipresenti in reparto nel momento del trapasso a volte porgono le loro condoglianze. Perché la morte porta con sé una gestualità che comunica il suo passaggio anche senza parole: il pianto, gli abbracci, spalle ricurve e visi contriti, silenzi rispettosi, voci sommesse. La morte rende visibile il suo transito. E gli anziani hanno un’esperienza di vita che li ha resi molto sensibili alla comunicazione non verbale, coriacea a volte anche al grave deterioramento cognitivo. Il giorno del funerale, se celebrato nella cappella dell’Istituto, vedrà molti di loro presenti, in particolar modo se l’anziano nel tempo si era fatto conoscere e aveva stabilito legami. Oppure si partecipa per anziana-umana solidarietà.

A volte, alcuni giorni o settimane dopo il funerale, ci sono familiari che scelgono di lasciare delle parole scritte che vengono poi condivise negli spazi comuni. Alcuni stralci vengono qui proposti perché consentono di affacciarsi sull’estrema ricchezza emotiva delle famiglie che hanno percorso con noi tratti di vita eoffrono un rimando su quanto del nostro fare è statopercepito.

“Mi sono presentata disperata, dalla scelta di dovervi affidare la mamma…, ma ancora non mi rendevo conto che stavo facendo solo il suo bene. Per quanto la scelta presa fosse dura da accettare, ben presto ho preso consapevolezza che questo posto erano diventati la sua casa, con privilegi che nemmeno io avrei saputo riservarle, dandole una vita decorosa ma soprattutto serena….. Tutti voi meritate un grazie per averla seguita in questi lunghi anni, ma soprattutto nei suoi ultimi mesi..”

“… sono passati sedici mesi da quando vi abbiamo affidato la nostra mamma, non è stato facile per noi ma non era più possibile gestire tutto da casa, nelle nostre visite quotidiane abbiamo apprezzato la vostra professionalità, disponibilità e comprensione nelle nostre richieste… Vi ringraziamo per il cuore che avete messo nello svolgere la vostra professione…”

“Il giorno X è mancato mio marito e nostro papà … , volevamo ringraziarvi tutti per la grande professionalità e amore che ci mettere nel vostro lavoro e in particolare per le cure e assistenza continua rivolte al nostro … Un grazie ancora per il sostegno ricevuto anche a noi familiari, in questo ultimo e triste periodo. Con voi ci siamo sentiti circondati da una grande famiglia.”

“Ricoverai mio marito quando mi resi conto che anche con l’aiuto di una persona estranea non potevo più farcela ad accudirlo, ma avevo il cuore pieno di angoscia. Subito mi accorsi che il reparto XXX, anche se accoglieva degli ospiti non sempre tranquilli, aveva un’atmosfera serena, che era frutto del lavoro svolto dal personale con calma, competenza e spesso con un sorriso. … un grazie particolare alla Dott.ssa XX (medico).. che ha seguito Y con “scienza e coscienza”, cioè con grande sensibilità umana, avendo sempre presente la sua qualità di uomo.”

“ … è passato più di un mese dalla scomparsa del papà… Questo istituto è stato per noi come una seconda famiglia, ha accolto e reso questo lungo periodo di malattia più sereno e confortevole ….. Un grazie speciale a tutti gli ospiti e i familiari che abbiamo conosciuto, con molti di loro abbiamo avuto rapporti di complicità e condivisione nei momenti di sofferenza ma anche di allegria assistendo a gesti d’amore che resteranno per sempre con noi… Grazie e grazie ancora da parte di mia mamma, ma soprattutto di mio papà.”

“Carissimi tutti, grazie. Ciascuno di voi nel suo ruolo ha curato Y con professionalità, ma soprattutto con umanità, medicina assai rara. Grazie di esservi presi cura anche di me. Mi avete fatto sentire parte della vostra grande famiglia. I vostri visi, le vostre voci e i vostri nomi resteranno impressi nei miei ricordi.”

 

Riflessioni finali

I rapporti interpersonali fra professionisti e familiari non sempre sono facili. A volte il percorso ben inizia e ben finisce. A volte il familiare reduce da esperienze negative si accosta alla struttura con qualche diffidenza ed è necessario del tempo per stabilire buone alleanze. A volte il familiare mal vive l’essere stato costretto ad affidare ad altri il proprio caro, questo suo sentirsi esautorato può alimentare un silenzioso astio e mancanza di fiducia o fiducia molto labile.

Le relazioni interpersonali fra professionisti e familiari hanno ripercussioni sull’ospite. L’eventuale sfiducia della rete familiare non facilita l’inserimento dell’ospite nel nuovo contesto di vita.

Una comunicazione chiara e costruttiva tra professionisti e familiari favorisce il lavoro di cura e di assistenza. Ogni familiare al momento dell’ingresso riceve tutte le indicazioni per poter prontamente mettersi in contatto con i diversi professionisti. Questo filo diretto vuole essere un ulteriore aiuto per facilitare la comunicazione.

Lavorare in Istituto implica per i professionisti entrare in contatto ogni giorno con un’estrema varietà di situazioni e di esigenze. A volte quello che per noi è “normale” necessità di essere motivato al familiare.

Professionisti e familiari sono detentori di specifici saperi e portatori di valore per l’anziano non autosufficiente.Riconoscerlo ecollaborare significa concorrere alla qualità di vita della persona ospite. I primi per il loro sapere scientifico/tecnico/professionale, i secondi per il loro sapere familiare. I primi sono in grado di rispondere ai bisogni sanitari e assistenziali dell’ospite, i secondi possono dare all’anziano un rimando sul suo ruolo all’interno della famiglia e della società. L’anziano, sempre più consapevole dei suoi diritti, chiede ed esige di essere considerato per tutto il corso della sua esistenza“Persona con un corpo”, non solo “un corpo” per quanto complesso.

Professionisti e famiglie saranno chiamati a sintonizzarsi sempre più sul volere del malato, soprattutto quanto si approssima la sua morte. Mi riferisco ai professionisti maggiormente coinvolti nelle decisioni riguardanti questioni di fine vita. Se sapranno parlarsi, confrontarsi e arricchirsi attraverso le specifiche competenze, conoscenze e sensibilità, garantiranno giorni di buona vita fino alla fine.

È opportuno che ognuno sia rispettoso delle fatiche dell’altro. I professionisti sono chiamati a tenere a mente le fatiche emotive della rete familiare, per meglio sintonizzarsi su eventuali difficoltà. I familiari è necessario tengano a mente che i professionisti ogni giorno sono impegnati nella cura e nell’assistenzadi tutte le persone in carico. Ci occupiamo sia di chi una famiglia ce l’ha, sia di chi una famiglia non ce l’ha più o non l’ha mai avuta. Gli uni sono uguali agli altri.

Come il lavoro d’equipe – modalità cui cerchiamo di essere fedeli nel nostro agire quotidiano – anche la buona comunicazione fra professionisti e familiari va alimentata costantemente. Ognuno è chiamato a portare il suo contributo.

Grazie a tutte quelle Persone che dalla creazione dell’Ente ad oggi hanno concluso le loro esistenze in questa realtà. Grazie a tutti quei professionisti che in questi 210 anni si sono adoperati per curare e assistere con professionalità e umanità chi un tempo era autosufficiente e veloce come loro, ma poi non lo è stato più. Grazie ai familiari che hanno condiviso con noi tappe di vita. Anche i contributi di ognuno di loro hanno permesso la crescita e lo sviluppo di AltaVita e ora, con il sapere teorico, ma anche esperienzialmente acquisito,ci stanno consentendo di riflettere sui temi di oggi e sulle prossime sfide che ci attenderanno.