LE RESIDENZE PER ANZIANI: NON LUOGHI DI TRANSITO MA LUOGHI DI VITA

a cura del dott. Marco Trabucchi, Dipartimento di Medicina dei Sistemi, Università di Roma Tor Vergata - Gruppo di Ricerca Geriatrica, Brescia. Atti del convegno 6 maggio 2016 "Terminalità e Residenzialità"

Il titolo del contributo esprime la scelta di fondo di questo testo, cioè il riconoscimento che le residenze per anziani non sono luoghi di breve permanenza in attesa della morte, ma luoghi dove la persona si trova a vivere in modo stabile, per poco o tanto tempo, sviluppando proprie dinamiche di vitalità.

Non è facile dare indicazioni concrete che conseguono a queste premesse; purtroppo su questi temi vi è stato uno scarso investimento da parte di chi ha responsabilità di delineare il futuro delle nostre comunità. Si è studiato poco il tema della vita nelle residenze sia da parte della medicina nel suo insieme, sia da parte delle scienze psicologiche e sociali. Per questo ancora oggi chi ha responsabilità di decidere sull’organizzazione delle residenze oscilla tra visioni funzionalistiche e visioni aperte, senza essere in grado di delineare i contenuti di questi approcci. E’ facile pensare che il fantasma della morte che aleggia attorno alle residenze per anziani abbia impedito più o meno consciamente un avvicinamento a queste tematiche; allo stesso modo si può pensare che a livello generale delle comunità, e delle famiglie in particolare, si viva con angoscia la separazione avvenuta tra il vecchio ammalato e il suo luogo naturale di vita.

Oltre alle precedenti considerazioni si deve riconoscere che i cambiamenti demografici ed epidemiologici sono avvenuti in tempi così rapidi da non permettere un’elaborazione serena e profonda di queste tematiche. Infatti sono state prese in carico prevalentemente da parte degli attori sul campo, come avviene per l’evento che ha portato a questo scritto, mentre chi dovrebbe sviluppare funzioni di ricerca resta ai margini. Però i segni dei tempi inducono a considerare che le dinamiche stanno cambiando; non so se siamo ancora arrivati dal “dipping point” dell’attenzione collettiva, però la società contemporanea, che ha sviluppato la propria attenzione per i diritti civili in molti settori, è destinata a prendere in carico anche le dinamiche dell’”invecchiamento fragile”. Senza la certezza apriori di un successo a breve, ma certamente con la speranza che il progresso che stiamo vivendo porterà a risultati. Il peso delle difficoltà economiche del sistema di welfare nel suo complesso, della solitudine che caratterizza la vita di un numero sempre più elevato di persone vecchie, indotta in particolare dalla crisi della famiglia, della condizione di malattia presente a vari livelli di gravità nelle età avanzate non permettono incertezze.

Oggi la responsabilità diffusa ha portato ad analizzare il buono e il meno buono delle residenze, senza adottare criteri aprioristici. E’ necessario qui e ora offrire ai vecchi bisognosi di protezione risposte vitali, evitando sofferenze prolungate. Le nostre incertezze scientifiche, la mancanza di risposte cliniche adeguate, l’impossibilità di verificare i risultati ottenuti non possono esser emotivi per non offrire ospitalità adeguate. Le difficoltà personali e collettive dei decisori non devono essere causa di sofferenza per le persone assistite; infatti, come indicato di seguito, in certe condizioni la permanenza a casa non permette la sopravvivenza. E’ un’affermazione forte, ma indiscutibile.

Ovviamente attorno a queste tematiche si possono sviluppare anche considerazioni etiche e psicologiche. “Preferisco che mia mamma viva e muoia a casa piuttosto di portarla in una casa di riposo”. E’ affermazione di grande valore soggettivo ed umano; bisogna però essere realistici nel considerare che questi legami forti tendono ad essere sempre più rari nella società contemporanea.

Quindi la scelta più opportuna è l’impegno senza soste per costruire il nuovo e migliorare il vecchio nelle residenze per anziani, guidati dall’indicazione di fondo di costruire luoghi di vita e non di transito o di contenimento. Senza timori o incertezze e senza attese; la sofferenza dell’anziano fragile è, qui e ora, sempre più pesante.

Chi sono gli ospiti delle residenze?

Gli ospiti delle residenze sono sempre più vecchi, con un progressivo avvicinamento ai 90 anni; è in atto un “invecchiamento dei vecchi”, con conseguenti gravi problemi sul piano umano e delle relazioni, oltre che clinico. Inoltre, il tempo di permanenza in RSA è sempre più breve e la degenza media è ormai inferiore all’anno, collocandosi tra i 6 e i 9 mesi in media, a seconda di specificità locali e di fasce di prezzo. In alcuni casi ci stiamo avvicinando ad un setting assistenziale qualificabile quasi come un “fine vita lungo”.

La maggior parte degli ospiti anziani è di genere femminile (oltre i 2/3 sono donne), con un accentuarsi del fenomeno con l’età. Questo dato impone attenzione alla “care” degli uomini, che -soprattutto se molto vecchi- rischiano di vivere in un ambiente umano poco adatto alla loro specificità sul piano umano e psicologico. Si deve al proposito sottolineare che a fronte di una certa attenzione dedicata negli ultimi anni all’invecchiamento al femminile, ben poco si conosce sul maschio che invecchia dentro o fuori la propria casa. Inoltre i residenti sono ammalati, all’interno di una dinamica polipatologia-disabilità che continua nel tempo e impone una sorveglianza attiva, perché l’intervento di care o riabilitativo perde valore se contemporaneamente non si agisce sulle patologie che sono la fonte di una disabilità che si incrementa nel tempo. Inoltre, alla disabilità somatica si accompagna nelle residenze una forte diffusione di disabilità psichica (demenze, depressione, psicosi), che talvolta può raggiungere l’80-90% degli ospiti. Il programma di cure deve quindi costruire un equilibrio nell’attenzione verso le malattie somatiche, le patologie psichiche e la disabilità; i componenti dell’equipe si trovano però spesso in difficoltà nell’organizzare interventi in grado di rispondere ad uno spettro così ampio e profondo del bisogno. Anche le terapie devono tener conto di questa realtà, trovando l’equilibrio tra una risposta punto per punto alla comparsa dei sintomi ed una visione complessiva, che discende dall’identificazione preventiva di precisi obiettivi. Peraltro, la velocità con la quale in questi anni sono avvenuti i cambiamenti demografici-epidemiologici, le motivazioni e i tempi di inserimento degli ospiti da parte delle famiglie, hanno reso necessario nei servizi alla persona un progressivo, lento adattamento dei vari aspetti operativi, come sarebbe stato auspicabile, ma che non risulta sempre facile da attuare. E’ necessario quindi un impegno al cambiamento in tempi rapidi, al quale è chiamato tutto il mondo delle residenze, così come gli altri ambiti di cura delle persone in età avanzata.

Le risposte possibili

In questo scenario la risposta del sistema di assistenza dovrà essere precisa e qualificata, segnando uno stacco rispetto alle tradizionali modalità di offerta.In attesa di tempi migliori si rileva l’esigenza che le strutture residenziali continuino ad offrire una risposta adeguata, in modo da allargare il consenso sociale verso i sacrifici imposti alla collettività. Nel prossimo auspicabile futuro si dovrebbe creare un circolo virtuoso, attraverso il quale ad una maggiore disponibilità collettiva corrisponde una risposta adeguata da parte di chi offre i servizi delle residenze, con un rapporto tra qualità e costi che dovrà necessariamente trovare un calmiere, sebbene manchino ancora modelli chiari. Negli ultimi anni, invece, la crisi delle finanze pubbliche, ha imposto la necessità di tenere fermi i contributi pubblici per la componente sanitaria, pur in presenza di ospiti sempre più compromessi, che richiedono standard assistenziali più alti. I maggiori costi sono così stati scaricati sulle rette delle famiglie, che si avvicinano a coprire complessivamente molto più del 50% del costo totale del ricovero, così come prevede sulla carta il legislatore.

Le strutture residenziali talvolta rasentano la caratteristica di “villaggio globale”; non si vuole dare una valutazione di questa condizione, ma soltanto sottolinearne la peculiarità rispetto al rischio che la struttura residenziale si chiuda in se stessa, impermeabilizzandosi ad ogni stimolo dell’ambiente. Il confine tra l’essere “contenitori di sofferenza” o “ambiti di cura” è molto sottile; il contenitore è chiuso, la cura invece richiede l’apertura verso l’esterno, per ricevere i supporti indispensabili per garantire all’anziano una decente qualità dell’assistenza. Il villaggio globale tende ad istituzionalizzare anche gli operatori, con risultati spesso catastrofici, perché si perdono i punti di riferimento rispetto alla vita dell’ospite, che dovrebbe essere il più normale possibile. E il villaggio globale –anche se protettivo- non potrà mai offrire garanzie di normalità, perché lontano dalla città reale. Molto spesso la costruzione del villaggio globale è un riflesso difensivo in mancanza della capacità culturale di capire le reali esigenze di un anziano, che, per quanto fragile e limitato nelle proprie espressioni psicofisiche, è portatore di una domanda di “senso”. Tanto più una comunità locale è coesa ed attenta, tanto più difficile sarà la chiusura del villaggio entro le sue mura; purtroppo, però, nelle grandi città e nelle istituzioni con molti ospiti il rapporto con la comunità diviene critico e solo una forte cultura assistenziale e la costruzione di un preciso progetto per la singola istituzione permettono di sottrarsi ai rischi di chiusura sempre presenti nelle ”istituzioni totali”. Anche rispetto alle terapie le residenze devono trovare un equilibrio tra la ricerca di specificità legata alle modalità operative interne e i riferimenti alla letteratura scientifica e, in generale, alle esperienze della medicina contemporanea.

In ambito strettamente clinico le residenze per anziani -anche se con livelli differenziati- sono chiamate a rispondere a situazioni sempre più complesse, con un periodo di permanenza sempre più breve e acuto, in cui bisogna accompagnare l’ospite e i suoi familiari a trovare residui orizzonti di significato. Questa realtà ha fatto giustizia delle banalità del passato, quando si disquisiva sul rischio di “medicalizzare” le residenze per gli anziani, che avrebbero dovuto conservare una sorta di “non corporeità”, per la quale solo i problemi psicosociali erano rilevanti. L’esigenza di cure in ambito medico ha immesso logiche che fino a qualche decennio fa non appartenevano al sistema, creando notevoli problemi di adattamento, connessi con il prevalere della tecnostruttura sanitaria; è quindi importante disporre delle conoscenze teoriche e pratiche per collocare le residenze nella posizione più corretta, pur sapendo che in nessuna parte del mondo vi sono esperienze definitive al proposito. Nessuno può considerarsi il definitivo portatore di scelte indiscutibili; è importante quindi sviluppare sperimentazioni controllate per misurare il livello al quale collocare l’intervento sanitario, evitando, da una parte, la jatrogenesi da eccesso di intervento e dall’altra l’astensionismo acritico. Fondamentale in questa prospettiva è la definizione a priori degli outcome delle terapie, per evitare l’autoreferenzialità dei processi di cura. E’ necessario identificare gli interventi che mirano alla sopravvivenza, alla riduzione dei sintomi, al mantenimento dell’autosufficienza, alla qualità della vita; saranno diversi da ospite ad ospite e richiederanno una conoscenza approfondita delle dinamiche cliniche di ciascuno e delle condizioni nelle quali questi si trova a vivere all’interno della residenza.

Sedare le paure, accompagnare le solitudini, lenire il dolore, garantire la libertà, fornire le cure sul piano tecnico: è un insieme di compiti che fanno delle residenze per anziani ambiti di lavoro complesso, che richiedono professionalità di alto livello. Se in passato in questi luoghi potevano lavorare operatori “marginali”, oggi lo scenario è cambiato; sono luoghi che richiedono professionalità moderne, intelligenti e orgogliose nell’affrontare compiti difficili e inediti.

Le residenze per anziani sono ambiti dove le fragilità si concentrano, perché è una condizione che rende difficile la permanenza a casa; è quindi pertinente pensare a queste strutture come “contenitori di cristalli”, dove la cura delle fragilità permette alla bellezza del cristallo di sopravvivere. Ma anche di perire con facilità, se non si mettono in atto le opportune misure di protezione, che non possono essere sporadiche, ma devono caratterizzare la vita dell’istituzione.

La salute degli ospiti delle residenze è per buona parte dipendente dalle modalità di assistenza, le quali debbono avere un approccio proattivo e non di attesa, consapevoli della grave fragilità di base che si deve fronteggiare.

A tal fine lo strumento fondamentale è l’assessment multidimensionale, indispensabile per valutare la persona in lista d’attesa, al momento del ricovero, ma soprattutto per una valutazione ripetuta nel tempo, sia quando vi siano elementi che perturbano lo stato di salute (una patologia acuta intercorrente) sia periodicamente, anche in condizioni normali (ovviamente in presenza di una patologia cronica). L’assessment permette di disporre di un “cruscotto” (termine poco clinico, ma molto comprensibile), che descrive la condizione attuale come premessa per eventuali cure, e un confronto con il passato e quindi offre una prospettiva evolutiva. Inoltre l’insieme delle valutazioni di un determinato settore o dell’intera residenza rende possibile il controllo della qualità dell’assistenza fornita (e non solo per realtà “forti” come la presenza di decubiti, ma anche per realtà più “delicate”, come, ad esempio, le conseguenze funzionali della progressione di uno scompenso cardiaco). Sono necessari anche strumenti specifici per la raccolta dei dati: dalle grafiche per i parametri vitali, per il controllo dell’assunzione del cibo, per il peso, o per parametri specifici, come il dolore o l’evoluzione di eventuali disturbi comportamentali, alla cartella clinica, alla cartella infermieristica, al PAI, alla documentazione che deve accompagnare l’ospite nel caso di un ricovero ospedaliero. Ovviamente si tratta di strumenti indispensabili per il governo clinico; dove mancano, è testimonianza di una disfunzione del sistema di assistenza e di un fatalismo che si pone solo l’obiettivo di intervenire quando compaiono specifici segni o sintomi, rinunciando ad una gestione realistica e complessiva del benessere. Tra gli strumenti importanti per governare il sistema vi è l’utilizzo della telematica (dalla lettura dell’ECG alla refertazione degli esami ematochimici, per limitarsi agli aspetti più semplici), che dovrebbe avere un importante sviluppo nei prossimi anni, superando gli ostacoli che in questi anni non hanno favorito l’implementazione delle tecniche disponibili.

L’insieme di questi supporti costituisce la base per la conoscenza del paziente e quindi per la susseguente razionale adozione di linee guida o protocolli che indirizzano la gestione, facilitando comportamenti standardizzati e attivi di fronte a specifici problemi. Schematicamente dovrebbero riguardare i seguenti aspetti: il contenuto dei controlli e la loro periodicità, la registrazione dei dati, la gestione delle emergenze, le terapie farmacologiche per garantirne l’appropriatezza riducendo al massimo gli effetti indesiderati, la prevenzione della sindrome da allettamento e dei decubiti, la contenzione fisica e farmacologica, le attività riabilitative, la cura di particolari patologie ad alta prevalenza o a forte impatto assistenziale (BPCO, scompenso di cuore, demenze, parkinsonismi, stati vegetativi, sclerosi laterale amiotrofica, ecc.) e di specifiche condizioni cliniche che richiedono apparecchiature complesse (ventilazione meccanica non invasiva, dialisi peritoneale, alimentazione artificiale, PEG, NET, ecc.). Particolare attenzione deve essere data ai malati oncologici, sia per gli aspetti che riguardano terapie antitumorali molto costose (che peraltro non rientrano nella quota sanitaria fornita alle residenze) sia per le condizioni di fine vita. In questa prospettiva si colloca anche il problema della rilevazione e della cura del dolore; troppo spesso nelle residenze mancano la preparazione culturale, la disponibilità di strumenti di rilevazione e dei farmaci necessari alle cure, con risultati negativi, che nel prossimo futuro dovranno essere al centro di interventi mirati. Le residenze non devono essere contenitori di dolore silenzioso e indifeso.

Tutto quanto sopra indicato è possibile solo se l’assistenza clinica è garantita in modo continuativo. Ciò non sempre si realizza quando i medici hanno una presenza quantitativamente limitata e programmata solo in modo da adempiere agli obblighi di minutaggio di presenza, che li induce ad essere parcellari e a compiere interventi solo in presenza di sintomi eclatanti. Un’organizzazione oculata dovrebbe evitare questi problemi, organizzando la turnistica in modo che il singolo medico possa garantire in modo programmato una continuità nel tempo della conoscenza del paziente, il controllo di eventi clinici intercorrenti, terapie mirate. Anche per quanto riguarda le guardie notturne e festive, è importante la presenza di medici che operano in sintonia con gli indirizzi della direzione medica, sia per gli aspetti generali sia per gli interventi sul singolo paziente.

Infine si deve sottolineare l’importanza di controllare l’insieme dell’organizzazione del lavoro, in modo da garantire allo stesso tempo il ruolo specifico del medico, l’autonomia delle funzioni di nursing e la stabilità del rapporto tra operatore e ospite, così da arrivare ad una conoscenza approfondita di ogni singolo come patrimonio dell’equipe, che utilizza le informazioni per rispondere al meglio alle esigenze di cura. Ovviamente questi comportamenti subiscono modulazioni nelle diverse strutture come conseguenze della dimensione, dell’organizzazione, della sensibilità degli operatori. E’ però necessario chiarire che l’elasticità deve avere precisi confini, oltre ai quali non è possibile garantire un’assistenza adeguata e una presenza significativa all’interno della rete (sia verso il territorio che gli altri segmenti, in particolare l’ospedale). Il punto delicato a questo proposito –anche nella prospettiva concreta del prossimo futuro di dover ricorrere a servizi a costi minori rispetto agli attuali- è definire dove si colloca la struttura stessa e quindi se sia necessario costruire in modo più o meno informale classificazioni che permettono di rispondere a pazienti con diversi livelli di compromissione clinica e dell’autosufficienza.

Un aspetto particolarmente complesso nella vita delle residenze è rappresentato dall’esigenza di continuità delle cure quando l’ospite viene trasferito in ospedale per specifiche esigenze cliniche e quando ritorna nella struttura. E’ un tema largamente discusso dalla letteratura geriatrica americana, perché negli USA si registrano trasferimenti dalle nursing homes agli ospedali per il 20-25% degli ospiti ogni anno. Oltre agli aspetti umani e organizzativi, che imporrebbero di ridurre al massimo questi passaggi, è necessario identificare strumenti che permettano di controllarne le conseguenze sul piano clinico, indotte soprattutto dall’incapacità di trasmettere informazioni e indicazioni da un segmento all’altro della rete. Vi sono numerose esperienze di modalità per facilitare la transizione dell’anziano, in attesa dell’auspicabile cartella clinica computerizzata degli ospiti, che dovrebbe essere consultabile da ogni altro punto del sistema sanitario dove si esercitano le cure. L’aspetto centrale è evitare che il paziente che entra nell’ospedale sia studiato come se “non avesse una storia” di malattia e di contatti con operatori sanitari esperti e attenti, perché così si rischia l’esposizione a trattamenti inutili o dannosi, oltre che una certa aspecificità degli interventi. Allo stesso modo, quando il paziente ritorna nella residenza, dopo un periodo più o meno lungo di ospedalizzazione (talvolta anche molto breve, se i medici del pronto soccorso hanno ritenuto infondate le motivazioni del ricovero), non sempre vi è attenzione ad un’adeguata informazione degli operatori, che si trovano a gestire l’ospite privi delle necessarie indicazioni terapeutiche. Si tratta di criticità che nel complesso sembrerebbero facilmente superabili, ma che invece ancora oggi rappresentano punti di attrito; necessiterebbero di un forte governo del territorio, in grado di imporre modalità di lavoro adeguate al bisogno e non impostate solo sulle esigenze intrinseche del sistema assistenziale. Un governo che molti operatori si augurano, anche perché alla fine renderebbe il lavoro di tutti meno stressante e fonte di maggiori soddisfazioni.

Verso una qualità tecnica e relazionale

Nell’ambito della ricerca delle migliori modalità assistenziali nelle residenze la dialettica tra il poco e il troppo nella prescrizione diagnostica e terapeutica e, in generale nell’approccio clinico, ha occupato uno spazio rilevante; anche se non porta ancora a conclusioni operative, ha indotto discussioni approfondite, con un indubbio vantaggio per gli ospiti. La dialettica tra il “troppo e il troppo poco” si esplica attorno all’eccesso di trattamenti in corso di malattie croniche, quando sono praticamente nulle le possibilità di modificare la storia naturale, ma anche attorno alla prescrizione di farmaci sintomatici. La decisione del medico è sempre delicata, anche perché alcuni “pregiudizi” possono influenzare una decisione che ha il solo supporto del “giudizio clinico” dello stesso medico. In questi casi si costruisce una piramide decisionale, nella quale la soggettività del medico è alla base di ogni successiva ulteriore decisione, la quale a sua volta precede altre decisioni. Si comprende che in questa logica le insistenze sulla formazione sono appropriate, perché nell’assistenza alla persona anziana la “mente” del terapeuta diviene la trama di tutta l’impalcatura delle cure. Una responsabilità forte, che il medico responsabile desidererebbe poter condividere con altri colleghi, anche se talvolta, soprattutto nelle residenze, vi è una totale mancanza di punti di riferimento.

La prescrizione terapeutica è profondamente influenzata dall’ambiente istituzionale

Sarebbe irrealistico pensare che chi decide le cure riesca ad essere neutrale di fronte all’insieme di eventi che caratterizzano la vita del paziente e spesso la condizionano fortemente. Infatti, oltre ai condizionamenti concreti posti dall’ambiente, è il modello di benessere ad essere diverso, per cui il medico in ospedale tenderà ad essere più aggressivo, nelle residenze più rinunciatario, a casa incerto se continuare o meno le cure o modificare la terapia in senso palliativo. Dietro alcune decisioni ci sono anche vissuti personali che si vorrebbero negare, ma che invece tendono a comparire. La routine è una difesa che vale sempre…, eccetto quando compare la crisi.

La terapia deve essere guidata dal volere del paziente, anche se molto spesso la raccolta delle sue indicazioni è difficile, perché espresse in modo scarsamente comprensibile; il tutto è più complicato in presenza di demenza, quando la persona perde la capacità di esprimere opzioni realmente corrispondenti alle proprie scelte. Anche la famiglia esercita una funzione importante; essa però è spesso confusa, mossa da attese irrealistiche oppure -all’opposto- rinunciataria. D’altra parte, il paziente senza famiglia è un paziente indifeso, perché -realisticamente- una famiglia attiva alle spalle rende l’ammalato più “forte” di fronte al sistema sanitario e assistenziale nel suo insieme, alle sue violenze implicite, alle dimenticanze involontarie, alla difficoltà di comprendere le indicazioni per la continuazione della terapia. La famiglia media il linguaggio della medicina rispetto alle esigenze dell’anziano, esercitando un’assistenza diretta anche se questi è ospite di una residenza. Nessun assessment è possibile in una persona con deficit di memoria, se la famiglia non costruisce un ponte tra la realtà e il sistema di assistenza. Questa dinamica è talvolta fonte di incomprensioni, tensioni, disagi. Però si deve riconoscere che la famiglia -anche se è un’alleata talvolta pesante- è sempre indispensabile per chi progetta e costruisce una cura per la persona anziana, in qualsiasi ambito vitale. Dare spazio alla presenza dei familiari è quindi una leva di buona assistenza, di confronto aperto tra professionisti e parenti, che permette una crescita reciproca, in particolare se esplicita le possibilità di attriti e prepara a gestirli.

Sulla base dello scenario composito descritto in queste pagine è utile indicare alcuni punti fermi, perché anche nel momento dei grandi cambiamenti, che possono generare diffusa incertezza, non si dimentichi la realtà del bisogno e l’esigenza di risposte adeguate nelle residenze.

Schematicamente possono essere così indicati:

  • Il servizio alle persone anziane fragili deve essere calibrato sulle condizioni del fruitore, per offrire modelli assistenziali adeguati, dalle fasi iniziali di perdita dell’autosufficienza fino alle fasi più avanzate, prestando -se opportuno- assistenza palliativa nella parte terminale della malattia. Questo atteggiamento deve essere costruito con una continua attenzione alle effettive disponibilità economiche della struttura residenziale

  • Il servizio deve essere organizzato in modo elastico, così da potersi adattare alla mutevolezza del bisogno. L’età è un fattore di differenziazione, per cui la rigidità non solo causa costi elevati sul piano organizzativo ed economico, ma soprattutto è un ostacolo a cure mirate

  • Il servizio deve caratterizzare i propri comportamenti operativi sul rispetto della volontà del cittadino, il quale chiede una risposta tecnicamente adeguata, ma anche attenta alle sue attese, speranze, timori. Se la volontà dell’ospite non può essere espressa per problematiche cognitive, la famiglia rappresenta il punto di riferimento

  • Il servizio deve dichiarare i risultati che si prefigge, indicando le modalità per rilevarli. Devono essere chiari prima di tutto a chi opera ad ogni livello, per impostare il proprio lavoro, ma anche a chi fruisce dell’assistenza (in particolare le famiglie, che vivono un equilibrio difficile tra critiche aprioristiche e un’accettazione silenziosa della realtà)

  • Il servizio deve garantire la cura delle malattie e dei sintomi attraverso la presenza di operatori che sappiano agire con atteggiamento proattivo, attenti in particolare alla progressiva perdita di autonomia funzionale
  • Il servizio non deve provocare danni diretti o indiretti alla salute del cittadino; si devono quindi evitare atti espliciti, quali, ad esempio, maltrattamenti o contenzioni, ma anche manchevolezze nell’attenzione all’alimentazione, al tono dell’umore, alle cadute, all’ambiente vitale, ecc.

  • Il servizio deve limitare al massimo le transizioni tra segmenti diversi della rete assistenziale, perché provocano stress nell’ospite e spesso danni alla sua salute (ad esempio, l’abuso immotivato del ricovero ospedaliero per condizioni cliniche trattabili all’interno della residenza). I diversi e mutevoli bisogni devono poter trovare risposta, fino dove possibile, in un’unica struttura modulare con un completo portafoglio di servizi.
  • Il servizio deve prendersi cura del “tempo” degli ospiti, riducendo al massimo la sensazione di solitudine e di abbandono

  • Il servizio deve essere valutato per i risultati raggiunti sul piano della qualità della vita degli ospiti, allentando al massimo da parte delle autorità programmatorie e di controllo il carico burocratico attorno a problematiche prive di reali ricadute sul benessere degli ospiti

  • Il servizio deve disporre di operatori preparati sul piano tecnico-professionale e adeguati sul piano delle capacità relazionali, nonché in grado di affrontare le possibili frustrazioni indotte dalle crisi del singolo ospite o dell’istituzione nel suo complesso.


Alla fine di queste righe dedicate alla vita nelle residenze è significativo inserire un riferimento al contributo di alto livello fornito recentemente da Atul Gawande nel volume “Essere mortale”. Il grande chirurgo americano ha esaminato la vita nelle residenze di molte persone anziane per indicare gli aspetti che dovrebbero essere cambiati.

Il libro inizia con queste righe, che fanno comprendere subito il significato dell’intera opera:” Ho dovuto studiare molte cose alla facoltà di medicina, ma la mortalità non rientrava tra queste. Nel primo trimestre mi fu consegnato un cadavere secco e coriaceo da sezionare, ma serviva solo per imparare l’anatomia umana. Nei libri di testo non c’era praticamente niente riguardo all’invecchiamento, alla fragilità, al morire. I modi in cui si svolge il processo, in cui le persone vivono la fine della propria vita e in cui tutto questo si ripercuote sui loro cari sembravano temi non pertinenti. Per come la vedevamo noi, e per come la vedevano i nostri docenti, l’obiettivo dell’istruzione universitaria era insegnare a salvare le vite, non a prendersi cura di come finivano”.

Un altro brano riassume il contenuto del volume, che affronta il tema dei servizi per anziani, delle loro crisi, della difficoltà di identificare modelli che rispettino la libertà dei cittadini, senza però che questo atteggiamento diventi una scusa per l’incuria. “In una casa di riposo ho incontrato una signora di 85 anni con l’Alzheimer e gravi problemi di deglutizione: veniva alimentata con pappine per evitare complicazioni. Ma a lei non andava bene. L’avevano sorpresa a rubare cookies. I biscotti sono una gioia ma anche un pericolo. Cos’è più importante: la salute o il benessere?”. Il libro cerca di dimostrare che il benessere conta più della salute, cioè che molta gente è disposta ad assumersi responsabilità personali, talvolta non in linea con le fredde prescrizioni cliniche, pur di dare senso alla propria vita. Ciò vale per tutte le età, ma in particolare per la vecchiaia, quando le possibilità di interferire con le preferenze dei cittadini sono più elevate, perché si tratta di preferenze “deboli”, di fronte ad una medicina che pensa di essere l’interprete delle cose giuste (quanto tempo abbiamo impiegato a comprendere che questa asserita verginità spesso nasconde interessi particolari, ma soprattutto un desiderio di autosopravvivenza senza il rischio di critiche esterne!).

Gawande ha girato centinaia di posti e ha interrogato un gran numero di persone;alla fine ha presentato una lucida analisi, senza estremismi e senza retorica, ma che rappresenta nei confronti del mondo dell’assistenza all’anziano una vera bomba: ci invita a pensare diversamente, senza negare la ricchezza delle conquiste di questi anni (“per chi invecchia non c’è stata epoca migliore di questa”). Il pregio del libro sta proprio nella storia del suo autore, persona completamente immersa nelle conquiste della medicina contemporanea, che non si pone come critico ideologico o politico, ma come riformatore intelligente ed equilibrato. In questa linea Gawande non va alla ricerca teorica dei significati della qualità della vita, ma esplora con occhio attento e colto le scelte che gli anziani fanno (o farebbero se fosse loro concesso).

“Lo aiutai a tirarsi su. Si aggrappò al mio braccio. E cominciò a camminare. Era sei mesi che il massimo che gli vedevo fare a piedi era attraversare il soggiorno. Ma lentamente, a passi strascicati, percorse tutto il lato lungo del campo da basket e salì i venti gradini di cemento della rampa che portava alle gradinate. Soltanto a vederlo mi sentii travolgere dall’emozione. Ecco, mi dissi, cosa diventa possibile con un diverso tipo di assistenza, con un diverso tipo di medicina”.

Forse queste righe non porteranno a rivoluzioni nella vita di ambiti che hanno raggiunto un apparente, tranquillizzante equilibrio; mi basta che cresca nella testa di chi pensa a questi problemi il piccolo tarlo di un’ipotesi diversa, come indica l’autore: “Questo è il risultato di una società che affronta la fase finale del ciclo dell’esistenza cercando di non pensarci. Ci ritroviamo con istituti che perseguono ogni tipo di obiettivo sociale -liberare i letti d’ospedale, alleggerire il carico che grava sulle famiglie, affrontare il problema della povertà tra gli anziani- tranne quello che importa a chi ci risiede: come condurre una vita che valga la pena vivere quando siamo deboli e vulnerabili e non sappiamo più cavarcela da soli”.